NEW YORK – Obama ha parlato. Dallo “State Floor”, a due passi dal punto in cui nel maggio del 2011 aveva annunciato al paese e al mondo l’uccisione di Osama Bin Laden. Ha parlato e ci ha detto più o meno quello che tutti si aspettavano.

Neanche quindici minuti per presentare al paese il suo piano d’azione “to degrade, and ultimately destroy“, colpire e ultimamente distruggere Isis, o Isil, come lo si chiama adesso. Che questi terroristi siano in Iraq o in Siria poco importa, perché “non c’è rifugio sicuro per chi minaccia l’America”. Ci vorrà tempo, ha avvertito, ma l’obiettivo è chiaro e verrà raggiunto. Bombardare dal cielo, sostenere l’azione delle truppe (altrui) di terra, portare aiuti umanitari. “No boots on the ground“, niente soldati US impegnati nei combattimenti, solo un po’ meno di 500 consiglieri militari per dar manforte all’esercito iracheno e ai “ribelli moderati” della Siria.



Obama ha parlato con piglio risoluto, e anche – a sprazzi – con passione. Ha parlato da capo supremo di un grande Paese e del suo grande esercito.

Doveva farlo. Che ci creda veramente o no, doveva farlo. Un presidente non può permettersi di dire che non sa che pesci pigliare, e lui, Obama, questo se l’era già permesso qualche tempo fa suscitando sconcerto e frustrazione. Ed eccolo qui allora il piano d’azione. Piaccia o no, che sia realistico o meno. 



Non è una nuova guerra, ha insistito, non ci impantaneremo come in Afghanistan e Iraq, e questa volta non agiamo da soli, siamo alla guida di una vera coalizione accomunata dallo stesso scopo.

Obama ha parlato e l’America lo ha ascoltato. Trepidando. Perché, al di là delle parole, non occorre andare molto indietro nella storia, non è necessario scavar tanto nella memoria per sentirsi addosso l’alito infuocato di guerre cominciate quasi per caso. 

“Anche il Vietnam è cominciato così, con i consiglieri militari e i bombardieri”, ha commentato un amico al termine del discorso presidenziale. Un amico che non finì in Vietnam solo perché il “draft“, il servizio di leva obbligatorio, venne abolito pochi mesi prima che toccasse anche a lui. Ma Obama ci dice che questa volta non succederà. Ci dice che faremo come in Somalia e nello Yemen. Gli americani si fermano un attimo e si chiedono: ma cos’è che facciamo in Somalia e nello Yemen? I commentatori politici, gli esperti e i sapienti raccolti dalla Cnn (tra i pochi in America che saprebbero anche trovare questi due paesi sull’atlante geografico) ci dicono che stiamo bombardando anche lì, e pure da un pezzo, sebbene quasi nessuno lo sappia. E quegli stessi commentatori ci informano che stiamo bombardando da oltre tre anni senza costrutto, senza aver capito di chi fidarsi. Già, perché cosa vuol dire “ribelli moderati” nel caos della continua partenogenesi dei rivoltosi di mezzo mondo? Quante volte abbiamo sostenuto (se non creato) gruppi armati per poi ritrovarceli contro? 



La Cnn – sempre speciale – ha “monitorato” le reazioni delle gente man mano che il presidente ci parlava di queste cose. Una specie di “polygraph“, la “macchina della verità”. Con le elezioni di midterm dietro l’angolo e la maggioranza del Congresso in palio, la rilevazione è avvenuta per categorie politiche: democratici, repubblicani, indipendenti. Ebbene le tre linee si son mosse in parallelo per tutti e quindici i minuti. Picchi di “gradimento” sull’orgoglio nazionale, sulla condanna delle atrocità, “serio disagio” sull’invio di consiglieri militari e su esito e tempi delle operazioni, “insofferenza” per l’occhiello finale con cui il presidente ha tentato di dar lustro al suo mandato enfatizzando ripresa economica ed occupazionale. Non c’entrava niente e gliel’hanno fatto capire.

I capelli ormai bianchi di Obama ci dicono a chiare lettere che guidare questo paese non è uno scherzo, la storia ci dice che dal ’45 le guerre non si vincono più, e le analisi della Cnn ci dicono che la gente è smarrita.

“God bless America”, ha concluso Obama, come sempre si fa qua. E se partissimo dal fondo e provassimo a chiederci davvero perché lo diciamo?