Aveva detto: “Mai più in Iraq”. E invece lo ritroviamo proprio lì, a Baghdad il presidente Obama, che aveva imperniato tutta la sua campagna elettorale contro McCain sul non ripetere la politica estera di Bush. Nel non fare la guerra, per intenderci. E a conti fatti, nonostante i conflitti armati siano lo strumento più deprecabile e meno auspicabile per risolvere le controversie internazionali, Obama si ritrova ora a chiedere all’America e al mondo di sostenerlo in un’impresa militare, guarda caso sempre in Iraq. Contro un nemico forse inaspettato e che si pensava di poter tenere a bada. 



Un intervento che mai come ora appare significativamente necessario, non fosse altro per andare a rimediare a politiche strategiche fallimentari in Medio oriente e in Nordafrica e a idee geopolitiche che da tempo hanno gettato la maschera della volontà pervicace di ridisegnare due quadranti estromettendo i moderati e portando in auge l’estremismo salafita. 



Stesso discorso per la Francia di Hollande, i cui caccia erano già in ricognizione in Iraq durante il summit contro il jihadismo, e l’Inghilterra di Cameron, che allora presero parte a quello sconvolgimento e oggi si ritrovano, paradossalmente, dall’altra parte della barricata. 

Ora c’è l’Isis, del califfo Al Baghdadi, che spaventa non solo l’Iraq, la Siria e la Libia ma anche il resto del mondo, con il solo Putin finora capace di arginare in maniera efficace le spinte eversive del terrorismo di matrice islamica proveniente dal Caucaso. Ovunque siano andati, i jihadisti di matrice salafita dell’Isis hanno sostanzialmente vinto, questo non possiamo nasconderlo perché partiremmo altrimenti da un presupposto errato e fuorviante per l’analisi complessiva. Hanno vinto anche laddove paiono non esistere, ovvero in Europa, dove manifestazioni di simpatia e di tolleranza viaggiano veloci fra le comunità e alcuni strati intellettuali che guardano di buon occhio ad una riduzione dell’influenza americana in Medio oriente. Per questa impresa che giocoforza coinvolge tutto il mondo arabo, Obama aveva bisogno non solo dei partners europei, che hanno manifestato ancora una volta una profonda e preoccupante “disunione” in fatto di politica estera, ma anche e soprattutto dei partners arabi.



Ma chi ha aderito a questa operazione contro Isis? E soprattutto, a quale scopo? Tempo fa, appena l’opinione pubblica mondiale e i media si accorsero di Isis (che agiva già dall’ottobre del 2013), scrissi che Al Baghdadi aveva in mente una sostanziale modifica del centro propulsivo tradizionale dell’islam mondiale, ovvero l’Arabia Saudita. E oggi, vista la lista dei Paesi che hanno detto sì alla missione Obama, lo credo sempre di più: Arabia Saudita, Bahrein, Kuwait, Egitto, Oman, Emirati Arabi Uniti, Qatar, Giordania (che ha in queste ore fatto un passo indietro), Turchia, Libano e Iraq. L’obiettivo dell’alleanza, da parte di questi Paesi o almeno della maggioranza di essi che aveva sostenuto in maniera massiccia l’integralismo durante la primavera araba, è quello di fermare l’attacco al cuore dell’islam mondiale: sarà una guerra inter-islamica.

Nazioni economicamente fortissime, escluso l’Egitto di oggi che aderisce perché deve tornare nel giro che conta dopo tanta assenza, ma estremamente deboli dal punto di vista militare e sostanzialmente sguarnite rispetto ad un attacco da parte del movimento jihadista di Al Baghdadi, che se volesse potrebbe prenderle in due giorni con un contingente ridotto. 

I Paesi a maggioranza sciita clamorosamente assenti, il cui destino ad oggi non è prevedibile, e gli Usa come padre nobile dell’impresa che da una parte eliminano la “mela marcia” nel cesto che è l’Isis, ma dall’altra non risparmiano bombardamenti e raid all’amico divenuto nemico Assad, che dopo due anni e più non è caduto, ma ha anzi aumentato il suo consenso. La domanda è: perché i grandi Paesi del Nordafrica non hanno aderito? Perché l’esperienza della primavera araba, sostenuta proprio da quegli Stati oggi coalizzati contro Isis, è ancora viva e perché l’obiettivo di questa impresa militare non risiede nell’annientare Isis, che è e rimane un dettaglio storico per le grandi potenze mondiali, bensì quello di preservare equilibri geopolitici ed economici, la cui rottura rappresenterebbe un disastro di proporzioni inimmaginabili per chi tira le fila dell’economia mondiale, oggi sospesa fra crisi e volontà di potenza nemmeno così gelosamente celate nelle segrete stanze. 

Il petrolio è il vero nodo attorno al quale gira e ruota la lotta contro l’Isis, che per suo tramite si arricchisce e diventa sempre più forte, assieme al suo carico di volontà terroristica. Ed è il nodo anche dell’Iraq e del mondo arabo post-Isis e post-primavera araba, i cui giovani e le cui classi dirigenti depredate dovranno poter contare sui proventi del petrolio senza dover chiedere il permesso a nessuno, cosa che finora hanno dovuto fare, trovandosi in un regresso sociale e politico tale da permettere la nascita del fenomeno salafita che ha portato Isis. E che permetterà la nascita di altri mostri di cui oggi ancora non abbiamo conoscenza.