Diceva il grande scrittore americano John Steinbeck che “la causa della Scozia non è una causa persa. È una causa ancora non vinta”. Dalle urne è uscito questo esito, che vede il sogno di libertà di questa antica nazione europea ancora rimandato. Un sogno che verrà ancora coltivato, nonostante l’amarezza di aver visto prevalere la paura. A forza di minacce sulle possibili conseguenze dell’indipendenza il risultato è stato ottenuto. . .
Negli ultimi giorni l’impegno dei media britannici è stato massiccio, senza precedenti. Sembrava quasi che la Britannia fosse tornata indietro di secoli, alla minaccia di invasione dell’Invincibile Armada spagnola che avrebbe portato con sé nell’isola le tenebre del cattolicesimo, o ai giorni della Battaglia d’Inghilterra del 1940, con gli indipendentisti scozzesi al posto dei Messerschmitt e degli Stukas tedeschi. Un clima surreale, diverso dalla tranquilla allegria delle manifestazioni indipendentiste. Un clima di pressione psicologica che ha ottenuto l’obiettivo che si era prefisso.
Ma se la assoluta determinazione inglese a mantenere sotto il proprio controllo quella che fu la prima conquista dell’Impero Britannico, un trofeo che non doveva sparire dal salotto buono, è stato sorprendente vedere l’impegno profuso in Italia dai sostenitori dell’unionismo britannico. A parte gli interventi un po’ folkloristici dei commentatori filo-inglesi che ricordavano nel loro entusiasmo per la Union Jack, Bond Street, il British Army gli ufficiali gentiluomini e altre amenità d’oltremanica l’Alberto Sordi di “Fumo di Londra”, gli interventi più significativi sono stati quelli contrassegnati da una determinata appartenenza ideologica e dalla vicinanza ad ambienti non solo politici, ma anche finanziari.
È il caso dell’ex premier Enrico Letta che ha evocato scenari apocalittici nel caso di vittoria dell’indipendenza: Edimburgo come una nuova Sarajevo, come l’inizio di una fase di gravissima destabilizzazione europea. Il tutto per l’autonomia di un Paese di 5 milioni di abitanti, la metà della Lombardia? C’è da riflettere. La bancocrazia fin da subito aveva messo un veto assoluto alla libertà della Scozia. Quasi che il buon Alex Salmond fosse una sorta di redivivo Chàvez, una minaccia per l’ordine mondiale.
E tutto sommato questa piccola Scozia un segnale l’ha dato in questo: ha mostrato che nell’era della globalizzazione e dei poteri forti è possibile che un popolo cerchi di autodeterminare il proprio destino, che cerchi con un voto popolare di decidere le proprie sorti. Un popolo, e non un consiglio d’amministrazione o una ristretta conventicola di esponenti di gruppi di pressione. Chesterton si sarebbe commosso di fronte a questo referendum, a questo tentativo di un popolo di determinare il proprio futuro, di far sentire la propria voce.
Torniamo all’Italia: tra i giornali che con più determinazione hanno osteggiato l’indipendenza scozzese c’è stato il Foglio. Ovvero una certa idea di destra, di conservatorismo, di occidentalismo. È tornato persino a farsi sentire qualche esponente teocon, giocando la vecchia carta dei “valori non negoziabili” (di cui peraltro la Chiesa stessa non parla più) lamentando il fatto che la Scozia indipendente non mostrerebbe interesse alle tematiche eticamente sensibili. Come se invece ce l’avesse la Gran Bretagna del conservatore Cameron che vota in Parlamento persino il suicidio assistito. Questa destra ha mostrato il suo volto peggiore: bisogna stare sempre e comunque dalla parte del potere, anzi, dei grandi poteri; occorre un Occidente (non un’Europa) con Stati grandi, muscolari. A che serve una piccola Scozia che rende più piccola anche la Gran Bretagna?
E oltre ai teocon all’italiana, gli Spaghetticon, in campo cattolico (fatta salva Radio Vaticana che ha dato più volte voce alle ragioni dell’Indipendenza) persino il moderato Avvenire ha mostrato poca propensione a sostenere l’indipendenza. Eppure la Santa Sede da tempo riconosce l’esistenza di una Conferenza episcopale scozzese, staccata da quella inglese. Ieri un articolo introdotto da alcuni clamorosi svarioni storici sosteneva che quella delle piccole patrie è una “ricetta perdente”. Peccato che questa fosse la ricetta per l’Europa di Giovanni Paolo II: dall’Atlantico agli Urali un’Europa di popoli e di nazioni. E la Chiesa di Giovanni Paolo II non esitò a riconoscere il diritto all’autodeterminazione delle piccole patrie: Lituania, Estonia, Lettonia, Slovenia, Croazia, Slovacchia, Timor Est. Tutte piccole nazioni inutili?
Giovanni Paolo II incoraggiò questi popoli, a dispetto anche di una diplomazia vaticana che per lungo, troppo tempo aveva preferito- per paura – mantenere lo status quo, non disturbare le grandi potenze come l’Unione Sovietica. La primavera di Danzica ci mostrò come un popolo possa riappropriarsi del suo destino. Non è un caso che gli emigrati polacchi in Scozia abbiano votato Yes.
Un’altra paura che serpeggiava in Italia negli scorsi giorni era quella che l’indipendenza della Scozia danneggiasse l’Europa. Questa ipotesi era del tutto surreale, dal momento che la Scozia è molto più europeista di un Regno Unito che dell’Unione europea è un socio a dir poco destabilizzante, che rema costantemente contro. Mai come i questi giorni, inoltre, abbiamo sentito parlare d’Europa, dopo che negli ultimi anni tutto l’apparato politico e mediatico italiano, da Berlusconi a Renzi fino ai più accesi euroscettici, ha tuonato in vario modo contro l’Europa. L’unità della Gran Bretagna è diventata improvvisamente un must: non certo per l’Europa dei popoli, evidentemente, quella sognata da Giovanni Paolo II, quella delle radici cristiane.
C’era infine la paura che l’indipendenza scozzese innescasse altri fenomeni di (temutissima) secessione: i catalani, i baschi, i bretoni, e chissà chi altri. Magari, in ottica tutta italiana, ciò avrebbe ridato vigore alle pretese della Lega. In effetti Salvini ha provato a cavalcare l’onda caledone, e speriamo che ne abbia tratto una bella lezione. Lo Snp ha sfiorato infatti la maggioranza assoluta solo in virtù della sua buona politica, delle sue idee, della sua coerenza. Non si è mai alleato – ovvero compromesso – con nessun partito inglese; non è mai ricorso alla xenofobia e al razzismo, non è mai stato “anti” qualcosa o qualcuno, ma solo pro Scozia; non è mai ricorso al turpiloquio, all’offesa, all’intolleranza. Una bella lezione per le camicie verdi della Padania.
In conclusione, si può dire che in questo referendum abbia vinto la logica lo status quo. Rimane la Gran Bretagna, con la sua sterlina, con i ricordi delle glorie imperiali e con le sue mani libere, da vero global player,nelle vicende europee e internazionali. Resta un sistema bancario dedito alla speculazione e non al servizio dell’economia reale; resta una politica del lavoro che non mira al lavoro stabile, ossia dalla parte della “domanda” dei lavoratori, ma dalla parte dell’offerta, ossia del capitale, e infine resta una politica estera subordinata all’egemonia globale americano-occidentale.
Resta tuttavia anche il segnale di speranza di poter cambiare tutto questo dato da poco meno della metà del popolo scozzese. Un segnale importante, che mostra che la libertà non è un sogno romantico ma costa cara, e per ottenerla bisogna sottrarsi a tutti i vigenti vincoli esterni creati per frullare i popoli nella macchina del mercato finanziario globale. Solo così la Scozia un giorno potrà essere davvero libera, ed essere magari di esempio anche per gli altri, anche per noi altri. Questa non è la fine: questo è solo l’inizio.