Il principale promotore del referendum scozzese pronto a rassegnare le dimissioni dopo la sconfitta con 2 milioni di no e 1 milione e 600mila sì. Alex Salmond lascerà gli incarichi sia come primo ministro della Scozia sia come leader dello Scottish National Party (Snp). Alla fine il 55% dei votanti ha deciso di restare con Londra, contro il 45% che voleva l’indipendenza. Salmond ha commentato le sue dimissioni imminenti spiegando: “Per me come leader il mio tempo è finito, ma per la Scozia la campagna continua e il sogno non morirà mai”. Ne abbiamo parlato con Giulio Sapelli, professore di storia economica nell’Università degli Studi di Milano.
Qual è il significato di questo risultato nel referendum scozzese?
È stata una vittoria del fair play e della democrazia rappresentativa britannica, una prova straordinaria di civiltà e di confronto democratico attraverso il referendum, anche perché a essere in gioco erano questioni identitarie molto profonde. Il sangue di Maria Stuarda è ancora fresco e c’è una questione religiosa aperta. Questo referendum, che poteva facilmente trasformarsi in una lotta fratricida, si è svolto con un rispetto straordinario delle opinioni altrui.
Secondo lei, perché il 55% degli scozzesi ha votato no?
Questo no è una vittoria della monarchia inglese, il cui ruolo è stato decisivo. Per comprenderlo basta avere sentito il discorso della Regina Elisabetta, che è riuscita ad affrontare i temi più controversi in forma conciliativa e non divisiva. Un vero e proprio abisso dalla crisi in cui si trova la monarchia spagnola. Gli ultimi re di Spagna non hanno saputo unire il popolo e le diverse nazioni sotto Madrid. Elisabetta II al contrario rappresenta la democrazia del Regno Unito e non soltanto quella degli inglesi.
Chi esulta in Europa lo fa a ragion veduta?
No. Naturalmente quella nel referendum scozzese è stata una vittoria di stretta misura in un’Europa malata, e il voto non basta a cambiare questa diagnosi infausta. Il 45% dei sì crea un’onda che presto arriverà in Catalogna dove non potrà essere fermata. Il campanello d’allarme in Scozia è suonato e se ci facciamo illusioni sarà una vittoria di Pirro.
In Catalogna il referendum potrebbe andare diversamente?
Sicuramente in Catalogna vincerà la secessione. In Spagna ci sono una monarchia inesistente, un primo ministro, Rajoy, che offende i catalani affermando che non sono intelligenti come gli scozzesi, un Partito Popolare Spagnolo che non ha nessuna leadership e credibilità. Non c’è dubbio quindi sul fatto che in Catalogna vinceranno i sì. Il problema non è l’Europa bensì la Spagna, uno Stato composto da più nazioni dove negli ultimi anni il gruppo dirigente, compresa la monarchia, non è stata all’altezza. Mentre chi guida il Regno Unito, nonostante le divisioni, ha dimostrato di essere in grado di affrontare le sfide.
Quali sarebbero le conseguenze per l’Europa nel caso di una secessione della Catalogna?
La situazione che si creerebbe sarebbe molto complicata, perché si aprirebbero dei vuoti istituzionali e delle reazioni a catena. Non credo che anche l’Italia sarebbe coinvolta da un processo di questo tipo, e del resto non riesco a prendere sul serio le affermazioni di Salvini, anche perché nel nostro passato non c’è nulla di paragonabile alla storia scozzese. Le conseguenze più immediate riguarderebbero piuttosto baschi e galiziani in Spagna, fiamminghi e valloni in Belgio. Le conseguenze sono dunque ancora imprevedibili, ma potrebbero essere devastanti.
Chi ha votato no in Scozia è stato influenzato anche dalla paura di una possibile divisione?
Sì, ma non solo. Se la Scozia è rimasta unita a Londra, è anche grazie al fatto che è un caposaldo laburista. A differenza che in Italia, nel Regno Unito i partiti sono ancora l’essenza del processo democratico, e la vittoria dei no è conseguenza anche di questo fatto.
(Pietro Vernizzi)