“Da gennaio in Iraq sono stati colpiti 25mila civili, di cui almeno 8.500 sono morti”. A rivelarlo è Nikolay Mladenov, rappresentante speciale dell’Onu in Iraq, durante la riunione del Consiglio di Sicurezza dell’Iraq. Una cifra che documenta la ferocia dell’Isis, come pure il fatto che negli ultimi tre anni la Turchia ha accolto 847mila rifugiati da Iraq e Siria. Soltanto nelle ultime 24 ore 45mila curdi siriani hanno attraversato il confine con la Turchia, mentre i miliziani dello Stato Islamico avanzano nella Siria Settentrionale. Ne abbiamo parlato con Gian Micalessin, inviato de Il Giornale e uno degli ideatori de Gli Occhi della Guerra, la piattaforma di crowdfunding, o finanziamento collettivo, attraverso cui è possibile sostenere i reportage nelle zone di guerra.



Micalessin, partiamo dal dato sulle vittime civili in Iraq. Lo ritiene attendibile?

Quello in corso in Iraq è uno scontro effettivamente cruento, basti ricordare che l’Iraq ha perso sette divisioni. Mancano all’appello 12mila soldati irakeni da quando è iniziato il conflitto, quindi 8.500 vittime civili è una cifra assolutamente reale.



Lei che cosa ne pensa del modo in cui l’Occidente sta cercando di contrastare l’Isis?

Manca un comando comune per coordinare le operazioni e una strategia per contrastare l’Isis, e queste carenze prefigurano un caos simile a quello libico.

Che strategia sarebbe possibile in Iraq e come andrebbe perseguita?

Andrebbe perseguita la strategia già attuata in Iraq dal generale Petraeus nel 2007. Il comandante americano all’epoca è stato in grado di ribaltare le sorti della guerra che sembrava già allora perduta contro Al Qaeda Iraq, che altro non era se non il predecessore di Isis.

In che cosa consisteva la politica perseguita da Petraeus?



E’ stata una politica di integrazione della società civile e delle tribù sunnite, che erano state emarginate dopo la caduta di Saddam Hussein, e per questo erano andate ad alimentare le fila di Al Qaeda Iraq. Dopo il ritiro Usa dall’Iraq, la mancanza di qualsiasi pressione sul governo dello sciita Nuri Al-Maliki ha fatto sì che quest’ultimo emarginasse nuovamente i sunniti, che sono tornati in forza ad alimentare le fila di Isis.

Quali sono le principali potenze regionali responsabili di quanto sta avvenendo in Iraq?

In primo luogo la Turchia, che finora rappresenta l’alleato dell’Occidente più ambiguo di tutto lo scenario. Ieri abbiamo assistito alla liberazione degli ostaggi turchi che erano stati catturati a Mosul a giugno, e dietro a questo risultato c’è senz’altro il pagamento di un riscatto. La Turchia ha ripetutamente appoggiato e concesso le sue basi all’Isis nel corso degli ultimi tre anni, e continua tutt’oggi ad acquistarne il petrolio di contrabbando.

 

E il Qatar?

Il Qatar è a sua volta un alleato molto ambiguo degli Usa, è stato tra i primi finanziatori dell’Isis e ha contribuito al suo riarmo almeno fino al 2013.

 

E’ giusto armare i curdi?

E’ una mossa rischiosa, perché potrebbe creare ancora più instabilità nel già travagliato Iraq, trasformando così i curdi in una nuova forza egemone.

 

Che cosa ne pensa dei raid aerei di Usa e Francia?

Condurre attacchi aerei senza un esercito sul terreno significa non aver nessun controllo di quel che succede, e lasciare quindi mano libera alle milizie sciite e ai pasdaran iraniani che sono presenti in Iraq. Per quanto riguarda invece la Siria, pensare di andare a bombardare le zone dell’Isis senza aver raggiunto un accordo con Bashar Assad, con i russi e con gli iraniani potrebbe creare ulteriori problemi. Se gli americani decidono di bombardare le basi siriane dell’Isis, russi e iraniani si sentiranno autorizzati a fare altrettanto e si rischierà un’estensione del conflitto molto pericolosa.

 

Meglio quindi stanziare fondi per aiutare le forze sul terreno?

Il Congresso Usa ha già stanziato 50 milioni per armare un’”opposizione moderata” ad Assad che in realtà non esiste. I ribelli siriani appartengono o all’Isis o a Jabhat al-Nusra, cioè le due ali qaediste, oppure al Fronte Islamico controllato e finanziato dall’Arabia Saudita, un blocco che a sua volta non si può certo dire liberal-democratico.

 

(Pietro Vernizzi)