Erano concentrati lungo tutto il tragitto, ammassati alle transenne nuove di zecca, sui muri in cemento, teste in gran parte rasate, gli uomini, cariche di figli le donne. Volti ancora scavati dall’umidità e dalla sofferenza vecchia di anni, con gli occhi immensi e spalancati, qualche brand cucito addosso, e l’aria di chi ancora non si è scrollato la povertà e la paura dalla pelle. Albanesi. Non poi tanto diversi da quelli che abbiamo imparato a conoscere nelle immagini degli anni 90, passate dai tg o dalla maestria di qualche artista impegnato.



Albanesi, sì, ma nella propria terra, dove volano le aquile e si ricostruisce l’umano. Dopo 46 anni di ateismo di stato, la giovane democrazia albanese alle prese con il desiderio d’Europa, ha accolto il Papa latino americano, pellegrino per le periferie del mondo, consolatore di popoli afflitti, testimone del Vangelo della Misericordia. Se bisogna indicare un protagonista delle 11 ore passate da papa Francesco in Albania, meta unica del suo quarto viaggio apostolico internazionale, si deve guardare a quel popolo che si è riversato indistintamente per le strade di Tirana, attento ed emozionato, quasi immobile nel rispetto per l’ospite.



C’erano tutti: musulmani e cristiani, anziani e bambini, giovani e migranti di ritorno. Nessuno ha voluto mancare l’appuntamento con la Storia, ma anche con un uomo vero, semplice, “uno che ci somiglia, perché ha conosciuto la valigia e la povertà come noi” raccontava un abitante di Tirana, in italiano dagli accenti veneti. Perché la cosa bella di questa città, che ricorda certa provincia italiana di architettura fascista, è che tutti ti fanno sentire a casa, parlando la lingua imparata dalle televendite italiane o i dialetti dei distretti industriali del belpaese. Tutti presenti come ad una festa patronale, timidi nella propria inadeguatezza, commoventi nel desiderio di mostrare tutta la bellezza e la dignità di cui possono essere capaci. Il giovane presidente musulmano era talmente emozionato da balbettare quasi, nel palazzo presidenziale tirato a lucido, accogliendo il pontefice. Bujar Nishami, che pure vanta un curriculum di tutto rispetto, sembrava un bambino accanto a Francesco, contento come sempre di vedere una nazione in festa. Bujar con la sua fronte imperlata di sudore, il sorriso reverenziale, i gesti imbarazzati, eppure solleciti ed accoglienti, era il simbolo di una nazione compita, giovane alle libertà, scavata dal dolore, rispettosa dell’altro e del diverso, onorata da una visita che ha omaggiato la periferia d’Europa e la sua storia. Una nazione che si è ammazzata di fatica, come secoli malvagi le hanno insegnato a fare, per presentarsi al meglio e abbracciare a dovere il successore di Pietro.



Dirette continue dei principali network, sicurezza moltiplicata, potenziamento delle reti di comunicazione, folla oceanica per le vie principali della capitale. Un paese in festa, finalmente “normale”, che ha lasciato parlare la memoria viva, i vecchi e ha fatto piangere il Papa. Lacrime di condivisione. Lacrime sante. Per lo straccio di vita di don Ernest, prete fragile e fortissimo.

 84 anni di sofferenza, tra stanze di isolamento, torture fisiche, prigionia in miniera e lavori forzati, nei canali melmosi. 84 anni a gridare “Viva Cristo, viva la Chiesa” in faccia agli aguzzini, celebrando la messa in latino a memoria, pregando per i propri carnefici e contando gli amici ammazzati dall’odio di stato.

E poi le lacrime per suor Marije e la sua esistenza spesa in attesa di vestire l’abito da Stigmatina, battezzando tutti quelli che poteva, lei, nipote di un prete, consacrata nel cuore e operaia nelle cooperative. Una che ad 85 anni davanti al Papa in persona si è chiesta come ha potuto fare a superare anni di persecuzione e paura, con il Santissimo nel cassetto del comodino di casa e le scarpe di plastica come aquasantiere.

Francesco li ha quasi stritolati in un abbraccio mentre cercava di nascondere il volto tra quelle ossa di vetro, i crani canuti, l’essenzialità di chi ha perso giovinezza, forza, ricordi forse, ma mai la fede. Testimoni viventi del tempo del martirio, residui di una stagione durata decenni che ha lasciato ferite, dopo aver spolpato il cuore dell’Albania. Loro i martiri, campeggiavano lungo il boulevard Deshmoret e Kombit, volti di sacerdoti, religiosi e giovani ragazze, come Maria Tuci, assassinati dal regime comunista e dalla follia di Hoxha, in una delle persecuzioni più crudeli e sistematiche compiute nel 900. E Papa Francesco li ha visti, ha scrutato i loro sguardi fermi, inspostabili, totalmente concentrati in Cristo, ragione unica di vite finite con una pallottola in corpo. Anche loro erano parte del popolo albanese, resistenza attiva contro chi voleva eliminare Dio dal paese delle Aquile. Strano animale l’aquila, imperatrice dei cieli, vola alto ma torna sempre al nido.

Lo ha ricordato Papa Francesco, durante la sua omelia nella piazza intitolata all’altro orgoglio nazionale, Madre Teresa. Il popolo albanese ha sofferto, non si è piegato, si è “sollevato su ali di aquila” come Israele, e oggi racconta al mondo una storia diversa, fatta non di rancore o vendetta, di vincitori e di vinti, ma di convivenza possibile, di rispetto e dialogo. Un popolo bello, quello albanese, che è stato capace di perdonare e di proporre al mondo un modello di collaborazione tra le diverse fedi, una pace costruita sull’accettazione della diversità, sul riconoscimento della libertà religiosa come valore supremo ed inestirpabile, sul dolore vivificato dalla fede e reso fecondo dal perdono. Una civiltà che ha rischiato di perdere Dio per sempre e che oggi non si sognerebbe mai di farne la bandiera sotto cui giustificare violenza, terrore o azioni contrarie alla dignità dell’uomo. Papa Francesco l’ha capito, ed è andato in Albania per indicare all’Europa e al mondo un laboratorio per il futuro. Non periferia, ma stazione di partenza per una umanità migliore.

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