NEW YORK – La novità maggiore della “People’s Climate March” (Marcia popolare sul clima) che ha avuto luogo domenica a New York non sono stati, per un osservatore europeo, i suoi elementi di rilievo immediato. Non che questi dati non siano stati importanti, e tali che si potrebbero addirittura definire storici: più di 300mila dimostranti di tutte le età e delle più varie provenienze, venuti anche da altri stati dell’Unione e da paesi africani, asiatici ed europei (“perfino da Roma”, ha scritto il New York Times di ieri) hanno sfilato per i canaloni di Manhattan dalla tarda mattinata fino alla sera, in una selva di cartelli e di altre presenze pittoresche.
New York, questa città cinica e scanzonata che ha visto di tutto, ieri ha forse sorpreso se stessa, con un’atmosfera che si potrebbe definire allegra e pensosa insieme, e che si notava già nella metropolitana e negli autobus, fin dalle prime ore del mattino. Le persone che si stavano recando alla Marcia si riconoscevano facilmente l’una con l’altra, anche senza parlare e in assenza di cartelli o altri distintivi: avevano la stessa aria di tranquilla energia, quasi di entusiasmo – l’aria di chi ha uno scopo che dà un senso alla sua giornata, e sperabilmente a quelle che seguiranno.
Ma non era questo, ripeto, l’elemento di sorpresa per l’osservatore europeo, e specificamente per quello italiano. Quello che colpiva era osservare un corteo pacifico (espressione che ultimamente in Italia è divenuta qualcosa di simile a un ossimoro): un corteo dove erano rappresentate le più diverse comunità, laiche ma anche religiose (uno dei “carri” in stile viareggino del corteo rappresentava l’Arca di Noè e alla sua prua erano visibili un sacerdote cattolico gomito a gomito con un rabbino, frati e suore circolavano intorno, e accanto all’arca oscillava un alto minareto costruito come un pallone gonfiabile); dove gruppi di sindacalisti sfilavano accanto a vari personaggi della vecchia e nuova contestazione (tipo “Occupy Wall Street”) e a gruppi indigeni dell’America del Nord e del Sud; dove contingenti di varie scuole e università si alternavano con i rappresentanti delle comunità cittadine e regionali recentemente colpite da calamità naturali come l’uragano Sandy; dove giovani succintamente vestiti danzavano accanto a invalidi in carrozzella chiaramente contenti di essere in quella compagnia, e a intere famiglie con bimbi in carrozzina.
Il corteo è sfilato nel cuore di Manhattan, passando a pochi metri dalle impeccabili facciate eleganti delle istituzioni industriali e bancarie che sono in un modo o nell’altro indirettamente responsabili del disastro ecologico planetario; eppure nessuno si è staccato dal corteo per operazioni di semi-guerriglia, e in generale la presenza della polizia era limitata. I rappresentanti delle forze dell’ordine (con larga presenza femminile) erano amichevoli e soprattutto concentrati (insieme con il servizio d’ordine del corteo) a mantenere il traffico scorrevole e ordinato: cosa che è pienamente avvenuta, senza tensioni, brontolii proteste tra gli sfilanti da un lato e i passanti e veicoli che andavano per i fatti loro, dall’altro lato.
L’osservatore italiano, soprattutto se giovane e ideologizzato, potrebbe esser tentato di guardare con un sorriso ironico a questo contrasto – dimostranti che passano tranquillamente accanto ai cosiddetti palazzi del potere contro cui protestano – e potrebb’essere tentato di parlare di “tipica ingenuità americana”. Ma se così facesse, sbaglierebbe di grosso: quello cui abbiamo assistito ieri era lo spettacolo di una vera democrazia. Certo, è una democrazia che funziona all’ombra dell’impero, laddove la società italiana non è (non è più) imperiale; d’altra parte la società italiana non è ancora una vera comunità, non è ancora completamente pacifica e rispettosa delle leggi (come i suoi cortei di protesta spesso e volentieri dimostrano) – dunque non è ancora compiutamente democratica. Al momento culminante del corteo, nel cuore della cittadella commercial-mediatica (all’angolo della Avenue of the Americas con la 57sima strada) puntualmente alle ore 13, come richiesto dagli organizzatori, il corteo dei 300mila si è immobilizzato, e la cacofonia che fino ad allora aveva regnato si è trasformata nel silenzio più completo, per un intero minuto; e come sa chiunque ha partecipato ad eventi di questo tipo, un minuto di silenzio di massa è molto lungo.
Minuto di raccoglimento? Minuto di protesta silenziosa? (la maggior parte dei manifestanti hanno trascorso quel silenzio tenendo le braccia levate e lo sguardo rivolto a terra, ma vari di loro hanno tenuto un solo pugno alzato).
La differenza importa poco: quella a cui abbiamo assistito era una manifestazione di rispetto della persona e della proprietà privata, di cura della dignità umana e del nesso fra la comune umanità e le differenze individuali. Un dettaglio da non dimenticare: a Columbus Circle, sul marciapiede di fianco al corteo che sfilava, stava ritto in silenzio un uomo alto, pallido e nervoso che reggeva un cartello scritto a mano il quale diceva: “L’effetto serra è una bufala” – e a poca distanza sostava un poliziotto alto quanto lui, ovviamente pronto a proteggere quella “voce fuori dal coro” dall’eventuale ira dei manifestanti. Ma non c’è stato bisogno di alcuna protezione: un uomo solo ha avuto il coraggio di esprimere il suo dissenso (non importa quanto debolmente fondato) contro più di 300mila – e non si diminuisce la sua coraggiosa originalità quando si nota che egli sapeva di poterlo fare perché era consapevole di vivere all’interno di una comunità democratica.