Con il sostegno di cinque paesi arabi (Arabia Saudita, Bahrein, Emirati Arabi Uniti, Giordania e Qatar), e in qualche caso anche con la loro diretta partecipazione, da ieri gli Stati Uniti stanno bombardando posizioni del cosiddetto Stato islamico, Is, in territorio siriano. Inaspettatamente il governo della Siria non ha condannato l’intervento. La sua agenzia ufficiale di notizie ne ha dato comunicazione senza commenti limitandosi a precisare che Damasco era stata informata dell’imminenza dell’attacco tramite il rappresentante permanente dell’Onu in Siria. 



Ciò significa che, malgrado tutto, per quanto attiene alla lotta contro l’IS Washington e Damasco stanno dalla stessa parte. È difficile dire adesso che cosa potrà mai derivare da tale stato di fatto, ma si tratta certamente di una novità rilevante di cui tenere attentamente conto. La partecipazione dei cinque paesi arabi è poi molto importante per evidenti motivi. L’attacco all’Is non può perciò più venire definito esclusivamente occidentale. Tra di essi ci sono anche due paesi come l’Arabia Saudita e il Qatar, dai quali a lungo vennero aiuti a gruppi estremisti ora confluiti nell’Is, e che forse ora hanno cominciato a capire di aver fatto un errore.



Sin qui gli aspetti positivi dell’operazione. Veniamo ora a quelli problematici. L’esperienza non smette mai di dimostrare quanto sia infondata la tradizionale fiducia degli Usa nel presunto ruolo risolutivo dei bombardamenti aerei. Niente sostituisce il controllo del territorio, nemmeno il più assoluto dominio dell’aria. Nella misura in cui pretendono poi di sostituire il controllo del territorio, gli attacchi aerei – che comunque non sono mai “chirurgici” – devono venire ben presto intensificati con effetti devastanti, che finiscono sempre per suscitare nelle popolazioni civili rancori e odi contro chi bombarda. Ciononostante ormai da oltre mezzo secolo, sin dalla seconda guerra mondiale, gli Usa continuano ad avere una fede incrollabile nell’arma aerea. Nel caso di questi bombardamenti su obiettivi in territorio siriano siamo al culmine del paradosso. Schierata infatti dalla parte dei rivoltosi contro il regime di Assad, Washington si è esclusa da sola dall’eventualità di qualsiasi intervento sul terreno; fosse anche pure un intervento indiretto tramite aiuti e sostegno logistico a forze di terra che non potrebbero essere se non quelle dello stesso Assad.    



Resta inoltre da domandarsi a questo punto che cosa ancora resta in piedi del meccanismo che, nel quadro delle Nazioni Unite, venne costruito al termine della seconda guerra mondiale per spostare i conflitti internazionali dalla sfera della guerra alla sfera della diplomazia. Come già nel caso della crisi ucraina anche in quello dell’offensiva aerea contro l’Is non si è nemmeno tentato, e non si è nemmeno finto di sottoporre la questione al Consiglio di sicurezza dell’Onu.

Tutta l’operazione è stata condotta dagli Usa prescindendo totalmente dalle Nazioni Unite. Oggi il Consiglio di sicurezza dovrebbe discuterne, ma il dibattito non potrà che essere patetico. La questione è ormai in altre mani. 

Se i curdi iracheni e quel poco che c’è dell’esercito del governo di Bagdad non  saranno in grado di respingere rapidamente l’Is fuori del Nord Iraq, e se frattanto le forze di Assad non riusciranno a espugnare le sue roccaforti del nord della Siria, allora l’Is comincerà a sparpagliare le sue forze e le sue installazioni nei centri abitati. Gli Usa e i loro alleati si troveranno a questo punto a dover scegliere tra cessare i bombardamenti oppure continuarli ma al prezzo della strage anche delle popolazioni che avrebbero voluto… liberare. Così, ahimè, stanno le cose.