Con il ritorno da lui stesso annunciato di Jihadi John abbiamo assistito alla seconda decapitazione di un ostaggio americano, il giornalista Steven Sotloff. Una provocazione che lascia attoniti, ma che costringe ora più che mai America ed Europa a interrogarsisu  come fermare tutta questa violenza. Le posizioni sono note: come spiega al sussidiario.net Guido Olimpio, Obama vorrebbe rimanere fuori da qualunque coinvolgimento, ma gli jihadisti hanno chiamato in causa proprio lui. La strategia del terrore messa in atto in Siria e in Iraq punta infatti a sfidare l’America e quali risposte possano arrivare a questa strategia lo spiega in questa intervista.



La strategia del terrore a chi è rivolta innanzitutto? A Obama, a Cameron o  ai potenziali jihadisti occidentali? 

Da una parte tenderei a non esagerare questi messaggi che arrivano con le decapitazioni.

In che senso?

Perché gli jihadisti dell’Isis ma anche altri gruppi non necessariamente medio orientali sono figli del loro tempo e quindi usano il web e i social network per far vedere quello che fanno. Ovviamente questo si inserisce in una strategia precisa.



Quale?

Un primo aspetto è una forma di propaganda per reclutare, per far vedere che non hanno paura e che sfidano l’America. Si vogliono proporre come avversari dell’America, meglio unici avversari. Certamente è un messaggio dal loro punto di vista molto forte perché da una parte spinge al reclutamento dall’altra è un segnale agli americani del tipo: noi non abbiamo paura. Il terzo aspetto è l’indicazione che loro hanno l’iniziativa, usano un’arma micidiale che è quella degli ostaggi che scatena poi polemiche all’interno delle società occidentali e anche in quella americana, se trattare cioè o meno e come rispondere.



In questo senso si può dire che le decapitazioni sono l’esito di trattative fallite? Di una linea dura da parte di Usa e Gran Bretagna? O sono scelte deliberate?

Sono scelte deliberate, non hanno alcuna voglia di trattare. Questa cosa dello scambio e delle trattative era anche tipico di Osama bin Laden. Ci fu il famoso video discorso nel 2004 dove sosteneva che ci poteva essere una tregua: ritiratevi, lasciateci in pace e noi non vi colpiremo. Ma il discorso è sempre quello.

Quale? 

Io sono pessimista sulla sorte degli ostaggi americani, erano segnati, erano condannati. Gli jihadisti cercano un pretesto perché non vogliono essere definiti terroristi, non si considerano terroristi, però la decapitazione di un ostaggio è un atto terroristico. Quindi dicono che è la risposta ai raid aerei americani, ma in realtà se volessero trattare tratterebbero ma in questo quadro non si tratta. Con alcuni paesi che pagano con i soldi trattano, ma con gli americani è un discorso politico.

Cosa chiedono all’America?

Chiedono che l’America accetti le loro condizioni e quindi la vita degli ostaggi è in pericolo.

Obama recentemente ha detto: “non abbiamo una strategia”. A cosa si riferiva esattamente? L’aviazione Usa è impegnata e dà supporto. Quindi? Si va verso un intervento più scoperto?

La frase è il risultato di alcuni elementi. Il primo elemento di fondo è che Obama e la sua amministrazione non hanno alcun interesse in un coinvolgimento in alcun conflitto. Sin dal suo primo giorno di insediamento Obama l’ha sempre fatto capire malgrado si dica il contrario e i complottisti vedano piani segreti americani.

 

Dunque quale la strategia del presidente americano?

Stare il più lontani possibili dalle guerre, lo abbiamo visto in Libia con il famoso “stiamo dietro agli alleati”. Qualcuno la definisce una scelta neo isolazionista, ma se non lo è dimostra una certa cautela. Il secondo elemento più tattico e più concreto è che dentro all’amministrazione americana non si hanno le idee chiare su cosa fare.

 

Che forze ci sono in campo?

Ci sono due partiti. C’è chi dice interveniamo e chi dice continuiamo a essere prudenti e Obama è tra questi. Più prudenti significa anche sapere che gli interventi aerei non sono la soluzione concreta, ci vuole un intervento vero di terra per vincere. L’altro elemento che sta emergendo è che gli americani non si fidano dei partner che agiscono intorno all’Iraq. Obama in modo molto netto durante un discorso ha parlato di ambiguità.

 

Di chi non si fidano?

Sanno che ognuno di questi attori anche chi aiuta gli americani tipo i curdi hanno una loro agenda, da una parte sconfiggere Isis e dall’altra i loro scopi. Ad esempio gli sciiti imporre il loro potere in Iraq, i curdi di farsi uno stato eccetera. Ecco perché Obama è cauto e secondo me ha ragione perché rischia poi di trovarsi da solo.

 

Il premier inglese sembra invece essere più interventista, è così?

Cameron ha effettivamente cambiato posizione. All’inizio aveva escluso interventi poi ha indurito la sua posizione. Non esclude infatti di partecipare in futuro ai raid. Obama ne parlerà al vertice Nato dei prossimi giorni e sicuramente chiederà ai partner un intervento concreto. iI sostegno inglese alla linea americana è scontato anche se va ricordato che quando Obama voleva attaccare la Siria il parlamento inglese votò contro lasciando di fatto Obama impossibilitato ad agire. E’ chiaro che serve una nuova coalizione, ha ragione Obama, non può essere la guerra degli americani. Il generale Petreus ha detto giustamente che non possono diventare l’aviazione degli sciiti per bombardare i sunniti. Ci vuole invece uno schieramento che coinvolga anche i paesi sunniti.

 

Perché secondo lei finora Israele non ha mosso un dito?

Israele ovviamente ha avuto il problema di Gaza e ha un suo fronte interno, anche se adesso con i ribelli siriani che hanno occupato posizioni sul Golan comincia ad avere preoccupazione. La posizione di Israele rispetto al conflitto siriano che è quello che più lo coinvolge è una posizione di equidistanza. Israele vuole che Assad non perda ma anche che non vinca, vuole cioè un regime debole e ovviamente che i ribelli non abbiano il sopravvento. Questa situazione favorisce Israele perché impegna i due avversari storici e può permettersi di fare lo spettatore. 

 

Per quanto potrà permettersi di farlo? 

Questo è da chiederselo visto che adesso i ribelli sono molto vicini e presto potrebbero decidere di attaccare anche Israele. Attualmente ha una posizione molto cauta, durante questi ultimi tre anni Israele ha parlato pochissimo della Siria proprio per tenere le distanze da questa vicenda.

 

Ora il califfato cosa può fare? “Politicamente” a cosa mira? A Baghdad o a consolidare i territori conquistati?

Non credo abbia la forza di attaccare Baghdad anche se in estate si era pensato potessero. Ma non ci sono le possibilità. Ricordiamo che il califfato è forte dove può contare sull’appoggio della popolazione sunnita, in altre aree non è gradito e dovrebbe imporre la sua autorità con il terrore e sappiamo che alla lunga non è possibile. Serve appunto una collaborazione con i sunniti che solo può scardinare il califfato. Isis non è un movimento come lo erano i talebani questi governano direttamente. Ma come fai a gestire un territorio se ti bombardano? Ecco perché qualcuno insiste sugli attacchi unico modo per disarticolare il califfato. E’ una fase delicata, molto dipenderà dalle prossime mosse della Nato, dell’America e dei paesi della zona.