Due milioni di persone, i leader di 45 Paesi, l’insistita affettuosità, persino fisica, della signora Merkel con François Hollande, sono tutti bei segnali della capacità di risposta emotiva della Francia; e di un’Europa che si riconosce una volta tanto insieme, negli ultimi tempi, nei suoi valori, e nella necessità di stringere i ranghi di fronte alla sfida del terrorismo islamico. Un po’ meno l’assenza di Marine Le Pen alla manifestazione a fianco di Hollande e Sarkozy, perché un leader che rappresenta il 25% dei francesi in questo momento non può tenerli fuori, anche solo simbolicamente, dalla risposta del loro popolo agli assassini di Charlie Hebdo e della drogheria kosher. “Oggi Parigi è la capitale del mondo”, ha detto Hollande.



Vero e benissimo sul piano emotivo e della valenza mediatica, ma da domani l’Europa e il mondo che si è ritrovato a Parigi ieri devono passare alla prova della realtà, e prendere atto che il Califfato islamico e il terrorismo che sollecita nel mondo usando spudoratamente i media e il web, devono essere considerati un’emergenza collettiva di prima grandezza. Un progetto politico radicale nell’ambito del mondo islamico, che non si può aspettare che si smorzi da solo, usurato magari da un contrasto a bassa intensità sul terreno affidato a resistenze locali, come i peshmerga a Kobane. 



Un approccio, che rischia di non portare da nessuna parte, anche per gli errori che l’Occidente ha commesso prendendo spesso, nella guerra civile interna all’islam — di cui ha parlato Sergio Romano — tra regimi autoritari ed establishment politico-economici, lucciole per lanterne nel tasso di rinnovamento democratico e “primavere di libertà” che ci si poteva aspettare dalle opposizioni ai regimi insediati in quei paesi. Quello che sta accadendo a Kobane è un caso di studio. Detto questo, anziché indulgere a sottili disquisizioni tra terrorismo islamico e islam moderato, e al consumismo mediatico delle atrocità di questa guerra, soprattutto quando sono esportate in occidente, è tempo di misure “tecniche” e politiche coerenti con l’obiettivo di sconfiggere il progetto politico del Califfato.



Sono molto sensate in questo senso alcune misure di cui si sente parlare. Come una sinergia con i colossi del Web e dei media per spegnere i riflettori — una via fondamentale di propaganda e di reclutamento imitativo — sulle strategie di comunicazione del Califfato e del terrorismo, ritirando rapidamente i contenuti che incitano all’odio e al terrorismo. Come pure rivedere gli accordi di Schengen se necessario, quanto meno per scambiarsi informazioni. Opporre in questa situazione sicurezza e libertà, per problemi di privacy rischia di apparire ridicolo. Il lettore comune benpensante — non incline a traffici illeciti di alcunché — ha difficoltà a capire quale lesione alla sua libertà ci sia se i governi conoscano, riservatamente, ma conoscano, i suoi spostamenti aerei, ad esempio. 

Ma il punto cruciale è ormai un altro. Le guerre civili che diventano guerre semiconvenzionali sul terreno, vedi Isis e Boko Haram, non si vincono con i droni, ed evidentemente non basta il sostegno a milizie o forze locali di contenimento (per giunta debole e arrivato in ritardo). E’ il tempo di valutare una forza adeguata di intervento sul terreno, messa su dall’Europa, dai paesi occidentali, coinvolgendo la Russia, e dagli stessi paesi islamici a tutela di se stessi innanzi tutto, contro le minacce di un terrorismo che ormai ha insediamenti parastatuali. E’ finito il tempo di delegare, uscito di scena il gendarme americano, a resistenze locali una minaccia globale, che ha i caratteri di una terza guerra mondiale a carattere glocale, dove lo spezzettamento territoriale dei suoi focolai non toglie niente a una linea di fronte che è globale, che va da Kobane alla Nigeria e Parigi, e domani può appalesarsi ovunque.