La strage di Parigi del 7 gennaio riempie ancora le pagine dei giornali e, forse, anche le chiacchiere e le paure nei bar. Ma forse ancora di più dei potenti. Lettura quasi concorde: un attacco portato alla libertà dell’occidente da parte di islamici integralisti. Indubbiamente attaccare e massacrare la redazione di un giornale è un attacco alla libertà di stampa. Indubbiamente gli autori sono di origine araba e — pare — reduci dai campi di battaglia siriani e iracheni.
Ma tutta l’azione si differenzia dagli attentati che il fondamentalismo islamico ha portato a termine in occidente in questi anni. In genere sia alle Torri Gemelle (prendendo per buona la versione ufficiale) come a Madrid si è trattato di commando suicidi. Persone addestrate per un attacco preparato e dal quale non era previsto sopravvivere. A Parigi la situazione è stata diversa. Non si è trattato di un attacco suicida (a quanto raccontato dalle autorità e intravisto dai filmati). Certo era possibile che uno o più membri del commando potessero rimanere sul campo (come in ogni azione di guerra), ma il tutto è stato condotto prevedendo l’allontanamento e la messa in sicurezza. Certo non si è vista il dispiegamento di “geometrica potenza”, per usare la formula di Franco Piperno dopo via Fani, ma di azione militare si è trattato. Armi non moderne ma estremamente efficienti, gli AK47 di origine russa, fabbricati in mezzo mondo e arma-simbolo di decine di rivoluzioni o presunte tali, due uomini addestrati, spietati e dal sangue freddo.
Nei primi giorni di novembre del 2005 le periferie di molte città francesi furono teatro di violente battaglie notturne e giovani delle periferie in gran parte immigrati di seconda e terza generazione. Il governo francese si vide costretto a dichiarare lo stato d’emergenza riprendendo la legge del 3 aprile 1955, promulgata durante la guerra d’Algeria. Nulla ci autorizza a credere che lo stato di tensione nelle banlieues urbane sia diminuito, rimanendo come brace sotto la cenere dell’apparente calma. Ma la situazione internazionale è cambiata e non pochi, pare, francesi ed europei hanno avuto parte alle guerre che si sono succedute in terre lontane. Dalla Bosnia all’Afganistan dal Kosovo alle repubbliche caucasiche fino alla Siria ed all’Iraq.
Possibile che “guerrieri” addestrati e “formati” non solo dal punto di vista militare siano tornati da quei teatri. Ma non per fare azioni suicide bensì per prendere le città. Non solo rabbia e frustrazione dunque, e forse non solo fondamentalismo religioso.
Tornando ad un parallelo con il passato, all’interno dei “cortei di massa” studenteschi dove i servizi d’ordine usavano spranghe e bastoni qualcuno cominciò a pensare alle P38. In Italia ci si trovò con il partito armato, piccolo, organizzato, addestrato, ben armato (AK47 e mitragliette Skorpion) e, last but non least, finanziato. E furono gli anni di piombo. I militanti in clandestinità si muovevano sicuri in un mare che pur non avendo fatto la stessa scelta armata li sentiva dalla propria parte e ne garantiva l’invisibilità. Non è che nelle banlieues francesi stia accadendo un fenomeno simile? Allora il quadro sarebbe diverso: non commandi esterni inviati da sedicenti califfi mediorientali, ma un tessuto di emarginazione interno ad una società sempre più senza volto dal quale spuntano iceberg di violenza.