All’età di 24 anni lascia il suo paese in provincia di Pescara e segue una ragazza a Toronto. All’inizio è così povero che sopravvive raccogliendo chiodi nei cantieri, ma non ne vuol sapere di mollare, tornare in Italia, o chiedere soldi alla famiglia che, benestante, glieli manderebbe. Oggi Paolo Palamara guida insieme ai suoi soci un’impresa, la Diamante Development Corporation, impegnata nella realizzazione di condomini di lusso e grandi strutture nel centro di Toronto… Domani, alla due giorni culturale del New York Encounter (a Manhattan, Metropolitan Pavillon, dal 16 al 18 gennaio) interverrà ad un dibattito dal titolo “Reality and Work: The Adventure of a Man Alive” (Realtà e lavoro: l’avventura di un uomo vivo). “La certezza è nel tuo desiderio” dice a un suo dipendente che forse non sa quanto lontano ha portato Palamara questa convinzione, come dice a ilsussidiario.net.
Partiamo dall’inizio: avevi poco più di vent’anni e sei emigrato in Canada per seguire una ragazza. La vita è stata subito dura e avresti potuto tornare o chiedere soldi ai tuoi genitori, perché non l’hai fatto?
Era una cosa mia, ero io in quella situazione, non loro. Ero povero, dove andavo mi perdevo, era tutto nuovo, non avevo la macchina, non conoscevo la lingua: si era stabilita una lotta tra me e quel posto. Non accettavo che quelle circostanze dettassero legge su di me e non volevo assecondare il modo con cui percepivo la realtà in cui ero.
Cosa successe poi?
Dopo un anno circa che ero lì, insieme alla mia ragazza e a un amico fondammo un’impresa, iniziammo a bussare alle porte dei grandi proprietari che affittavano case proponendo di ristrutturare le parti danneggiate dal sale (usato in abbondanza per sciogliere il ghiaccio), marciapiedi, tettoie, rampe dei garage, e chiedendo di essere pagati a giornata.
Beh, sembra facile detto così…
Non lo era per niente, perché non avevamo soldi e dovevamo procurarci carte di credito (che qui si possono avere slegate da un conto), gonfiando un po’ la nostra situazione con le banche; con i soldi prelevati pagavamo il materiale e gli operai, ma eravamo sempre al limite. Poi, dovevamo far girare tra cantieri il poco materiale che avevamo. Però le cose iniziarono a funzionare e cominciammo ad ingrandirci.
Ci fu un salto di qualità?
Dopo 4 anni dall’inizio, partecipammo al nostro primo grande progetto d’appalto per la costruzione dell’Empire Plaza nel centro di Toronto. Quando mi chiamarono per un colloquio, con un inglese davvero rudimentale, mi atteggiai come se avessi già costruito mezza città, millantando di avere ingegneri, costruttori, tutto a nostra disposizione, ma non avevamo nulla.
Un po’ rischioso…
In realtà volevo solo che i grandi costruttori iniziassero a conoscerci, non pensavo ci avrebbero chiamati e non lo volevo nemmeno, perché avevamo bisogno di più tempo per crescere. Invece dopo due settimane ci fu assegnato il lavoro: dovevamo realizzare l’intera struttura di un grattacielo.
Cosa accadde?
Uscii dall’ufficio che mi tremavano le gambe, mi dovetti sedere sul marciapiede. Trovai una cabina del telefono, chiamai e chiesi che mi venissero a prendere. Il lavoro si rivelò poi ancora più arduo di quello che pensavo.
Perché?
I nostri competitori avevano impedito ai fornitori di affittarci i materiali che ci servivano. Con le Pagine gialle in mano chiamammo mezzo Nord America: in Texas trovai a un buon prezzo le strutture in alluminio per fare i solai; in Austria trovai una ditta che faceva casseformi per i vani ascensori; poi mi serviva una gru particolare a “braccio impennabile”.
La trovasti?
Venni a sapere attraverso un meccanico che una ditta di Pordenone, la Comedil, dopo un periodo sfortunato, stava cercando di rinascere sviluppando un macchinario simile a quello di cui avevamo bisogno noi. Volai in Italia e con gli ingegneri di quella ditta, carta e penna in mano, l’abbiamo progettato. Sei mesi dopo, la macchina, la prima di quel tipo in Nord America, arrivò in Canada (oggi la Comedil, su quel prodotto, ha il 100% del mercato canadese).
Un bel successo… Non metto in dubbio che l’Empire Plaza fu costruito a dovere…
Tutto era un’occasione per riaffermare il principio da cui ero partito: tu circostanza, tu competitor non puoi mettermi sotto. Io voglio continuare a dire “io”. Comunque da questo lavoro abbiamo iniziato ad andare a gonfie vele e a guadagnare sempre di più. Una grazie e una disgrazia.
Prego??
In neanche dieci anni, così giovani, con così tanti soldi (in poco tempo eravamo diventati un’azienda di 200 persone), abbiamo pensato di diventare autonomi, i soldi ci hanno dato alla testa.
Ma l’autonomia non era stata la tua fortuna all’inizio?
All’inizio quello che mi muoveva era il lavoro e il suo prodotto, che implicava lo starci davanti con tutto me stesso. Quando hanno iniziato a girare i soldi, il significato del lavoro è cambiato: è diventato essere al servizio dei soldi. Diventammo come spettatori di quello che facevamo. Infatti subito dopo iniziò ad andare male tutto.
Cosa accadde?
All’apice del successo, c’eravamo allargati troppo, facemmo degli investimenti sbagliati. Avevamo perso lo spirito iniziale con cui fare le cose e la crisi immobiliare degli anni Novanta ci diede il colpo di grazia. Perdevamo 200mila dollari alla settimana, il nostro commercialista ci consigliò di chiudere per salvare quello che ci era rimasto.
Poi?
A quel punto tornò l’energia iniziale che mi fece dire: tutto ma questo no. Dipendenti, agenzie, fornitori… tutte queste persone non avevano fatto niente di male, pensammo che era giusto pagarle fino all’ultimo, anche se ci sarebbero voluti trent’anni. Arrivammo presto all’ultimo centesimo. Guardai la mia socia in faccia e le dissi: è finita. Ma arrivò una telefonata di un gruppo immobiliare di Taiwan che ci proponeva di partecipare ad un progetto.
Fu la svolta decisiva?
Li incontrai e dissi immediatamente che non avevamo alcuna intenzione di investire a Taiwan perché stavamo bene dove eravamo. E dettai le condizioni: chiesi un anticipo di 50.000 dollari, pagamento a settimana, e il 30% in più su qualunque costo. Da lì ricominciammo a lavorare e in breve passammo dall’essere subappaltatori a costruttori.
Fino alla grande crisi del 2008?
In realtà la crisi non ha mai davvero colpito il Canada, è stato più che altro un contraccolpo della crisi mondiale. Abbiamo fatto dei sacrifici per soddisfare le nuove richieste delle banche che, a titolo precauzionale, hanno chiesto garanzie più forti, ma in realtà il lavoro non si è mai interrotto.
Fate condomini di lusso, uno dei vostri asset, se così si può dire, è il Made in Italy, chi sono i vostri fornitori?
Dall’Italia noi acquistiamo arredo bagno, arredo cucina, arredo camera, pavimenti di legno, marmi, porte. Per me le aziende italiane non hanno concorrenti in quanto a flessibilità e adattabilità, oltre che design e tecnologia, che sul singolo prodotto è avanzatissima. Anche se il Made in Italy non è tutto uguale.
In che senso?
Ci sono aziende che dicono: faccio questo prodotto e devo fare di tutto perché il mercato lo recepisca così com’è.
Cosa diresti a un tuo fornitore italiano in crisi?
Di essere curioso, di andare a cercarsi i mercati, di non rinunciare a capire le sue esigenze e di non avere la pretesa che quello che fa non possa essere cambiato.
La tua è un’esperienza particolare di ex giovane che ha lasciato l’Italia per cercare fortuna all’estero. Cosa diresti a un giovane che non trova sbocchi in Italia?
Ti racconto un fatto che mi è appena successo.
Prego.
Prima di Natale ho assunto un coordinatore di cantiere. Doveva iniziare a lavorare lunedì, ma all’ora in cui doveva essere in azienda non si è presentato. Chiamo l’agenzia che mi dice che la compagnia dove lavorava aveva rilanciato offrendogli di più e mi suggerisce di fare un’offerta più alta a mia volta. Dopo un’ora e mezza il ragazzo si presenta nel mio ufficio e mi dice che non si tratta solo di una questione di soldi, ma anche di sicurezza del posto di lavoro.
Mi sembra razionale, cosa gli hai risposto?
Gli ho chiesto cosa ne pensava della schiavitù. Mi ha risposto che era una cosa deplorevole. Allora io gli ho detto che la sicurezza o è nel suo desiderio, o non la troverà in altro, né in me, né nell’altro datore di lavoro, che domani possiamo non esserci più. Non sei uno che metto in una scatolina — gli ho detto — e a cui chiedo di fare questo o quello; il percorso del tuo lavoro ce l’hai in mano tu, lo spazio te lo crei tu; come vuoi crescere, progredire dipende da te, la curiosità con cui vai al lavoro la mattina è tua, non te la do io, né adesso né mai. Con questa sicurezza tu troverai sempre il lavoro, con quella che hai mente tu, vivrai vita natural durante con la paura che ti possa essere portato via quello di cui hai bisogno.
Come è andata a finire?
Mi ha chiesto se la porta era ancora aperta per lavorare con noi. E io l’ho gli ho detto di sì. Ha firmato il contratto per la stessa cifra.
E la morale per i giovani italiani?
Il problema non è se vanno all’estero o se rimangono in Italia, il problema non è cosa bisogna fare perché i ragazzi non se ne vadano dall’Italia, perché l’Italia è bella, c’è il sole, si sta bene, ha una grande storia, una grande cultura, il Cupolone, ecc. Il punto è che gli adulti si mettano con i ragazzi a pensare insieme come stare di fronte alla crisi. Se non c’è soluzione, la si inventa. Il problema è la posizione umana.
(Silvia Becciu)