MOSCA — La Russia è europea anche se Putin non era a Parigi per la grande manifestazione dopo la strage di Charlie Hebdo; lo è nelle reazioni della gente che davvero hanno toccato tutte le tematiche e hanno risuonato di tutti i toni del resto dell’Europa, nel bene come nel male. Così siamo passati dalla condanna dell’attentato ai distinguo del «se lo sono cercati», distinguo dissennati fino al punto di mettere sullo stesso piano l’assassinio e la bestemmia; «tra quello che hanno fatto i collaboratori di Charlie Hebdo e quello che hanno fatto i fratelli Kouachi non c’è nessuna differenza», è arrivato a dire un commentatore. Allo stesso modo siamo passati dalla sottolineatura dell’odiosità di molte vignette alla difesa ad oltranza di una libertà senza limiti.
Accanto a questo c’è stata anche però un’insistenza e una peculiarità di cui l’Occidente dovrebbe forse tenere conto; in molti commentatori, pur sullo sfondo di posizioni e accentuazioni diverse, è apparsa una sottolineatura particolare: il fastidio e il rifiuto delle motivazioni e delle argomentazioni ideologiche, un diffuso rifiuto della logica degli schieramenti e della contrapposizione tra «il diritto di parlare e il diritto di credere», fino alla netta affermazione di Ol’ga Allenova (una giornalista di Kommersant) secondo cui «la guerra dei mondi e lo scontro di civiltà è già in atto, ma non solo nei diversi continenti, bensì nel profondo del cuore di ogni uomo».
Una posizione simile supera in partenza il nichilismo degli attentatori come quello di molti commentatori: supera il vero e proprio suicidio in cui cadono gli ultraortodossi quando in nome del rispetto dei sentimenti e dei principi religiosi finiscono per negare il rispetto primario della vita umana, negando quindi la loro stessa fede; e allo stesso modo supera l’identico suicidio degli ultraliberali che in nome di una libertà assoluta rischiano di dare ragione ai loro stessi avversari e di non sapere più perché, se tutto è permesso, non è però permesso togliere la libertà e la vita di altri esseri umani.
È una logica suicida in cui ciascuno si lascia definire dalla logica del proprio nemico. E in questo senso c’è un comune nichilismo che serpeggia per la nostra Europa e per il nostro mondo, un nichilismo condiviso tra i terroristi e i loro bersagli, tra gli schiavi ribelli e i vecchi padroni, estenuati da una libertà di cui vorrebbero fare a meno o di cui vorrebbero poter godere senza fare troppa fatica, semplicemente negandola ai propri avversari.
La Russia su questo ha qualcosa da dire forse perché è una logica che ha conosciuto bene: la logica del tutto è permesso, la logica dell’eliminazione del nemico, è la logica della rivoluzione, la logica degli schiavi ribelli che diventano i nuovi padroni; la logica del «se la sono cercata», sottolineava la poetessa Ol’ga Sedakova, è la logica degli schiavi docili che, quando la polizia politica arrestava qualcuno, dicevano, per mettersi in pace con la propria coscienza e tranquillizzarsi: «se li arrestano, devono pur aver fatto qualcosa». Modo comodo, appunto, per sollevarsi dalla responsabilità di giudicare e eventualmente di lottare; modo sicuro, anche, per candidarsi alla prossima retata.
Contro questa logica non c’è rimedio possibile se si resta al suo interno o se si accetta la discussione secondo le sue regole; bisogna semplicemente uscirne: «quelle vignette non mi piacciono e il loro contenuto è rivoltante», diceva Tat’jana Krasnova, un altro dei commentatori di questi giorni, ma, aggiungeva, «mi devo fermare lì», perché ogni altra aggiunta mi riporterebbe in una logica di contrapposizione, in una logica di idee — l’ideologia — che vorrebbe costringermi a scegliere tra le ragioni di due parti che in modi diversi non hanno ragioni e mi allontanerebbe dalla realtà semplice e indiscutibile secondo la quale chi ha ucciso un essere umano è un assassino, e l’omicidio resta omicidio a prescindere da chi sia la vittima e da quali colpe possa aver commesso; così come la bestemmia resta bestemmia quale che sia l’ingiustizia che deve subire poi chi l’ha pronunciata.
Nelle vignette di Charlie Hebdo c’era un’indiscutibile dose di male, è stato sottolineato da molti, ma nessuno può pretendere di avere la ricetta e la formula che guarisce ogni male, soprattutto i mali altrui; ogni cura, precisava il noto giornalista e commentatore televisivo Aleksandr Archangel’skij, ha i suoi pregi e i suoi difetti, ma «quello che conta più di ogni altra cosa non è se gli altri hanno scelto la cura giusta, ma quanto sia efficace la cura che ho scelto per me». La lotta col male, diceva ancora Ol’ga Allenova, «è innanzitutto la lotta con il male che è dentro di me, che è certo più grande di quello che è negli altri, perché quello che è in me lo conosco, quello degli altri no».
Non è lontana da questa logica di responsabilità e di pentimento la vignetta del primo numero di Charlie Hebdo dopo la strage, con quella parola — perdono — dalla quale tutto può ricominciare passando attraverso tutto quello che è successo, senza nasconderlo, ma senza farsi condizionare da esso e, soprattutto, ricominciando da quel punto che solo può cambiare le cose a dispetto di tutti i nostri limiti: proprio il senso del nostro male e il bisogno di perdonare ed essere perdonati.
L’Europa davvero non si ferma a Parigi.