“Non si può definire tutti con la stessa etichetta. Io stesso sono stato etichettato come jihadista da un giornalista italiano, ma non lo sono”. A parlare è Sam Najjar, 35enne di origini libico-irlandesi che nel 2011 ha lasciato la sua vita di Dublino per combattere prima in Libia e poi in Siria. Fa anche lui parte dei cosiddetti “foreign fighter”, cittadini occidentali che partono per il Medio Oriente e tornano in patria dopo essersi addestrati e aver combattuto. Oggi, dopo le stragi di Parigi e l’Isis che chiede agli jihadisti europei di “colpire ovunque”, sono considerati i soggetti più pericolosi: lupi solitari capaci di portare morte e distruzione nelle nostre città.
Sam Najjar non si considera però una minaccia, non è partito per motivi religiosi. Voleva difendere gli innocenti e combattere il regime. Tutto è iniziato nel 2011, l’anno della primavera araba: “Quell’anno ha offerto a me la possibilità di redimermi dopo anni in cui avevo vissuto senza combinare niente, e alla Libia l’occasione di provare a risolvere i suoi problemi”, ha detto il giovane in un’intervista rilasciata a Marialaura Conte per Oasis, la rivista dell’omonima Fondazione. “Per mesi ho seguito i fatti alla televisione e mi preoccupavo molto perché sapevo quello che il regime era in grado di fare, come poteva uccidere moltissimi innocenti”. La scintilla è poi scattata quando scoprì quanti mercenari combattevano nei villaggi: “Era troppo da sopportare, non potevo più stare fermo davanti alle atrocità di cui riferivano i telegiornali”. Sam ricorda di aver fatto un passo indietro e di aver detto: “I miei amici sono lì. Devo fare qualcosa! Vado!”.
Dopo un paio di mesi era in battaglia “e ci sono rimasto otto mesi, a partire dal giugno 2011”. Poi qualche tempo dopo decise di spostarsi in Siria e di unirsi ai ribelli per combattere contro Assad, ma entrambi i viaggi “non avevano nessun tipo di sfondo religioso. Io e migliaia di altri uomini come me siamo partiti per spirito patriottico, non per ragioni religiose”, ci tiene a precisare. In Siria, come in Libia, voleva vedere il popolo “libero dalla dittatura. Questo il movente, non la religione”.
Che cos’è allora l’Isis per lui? “Non rappresenta l’Islam, è una deriva pericolosa – spiega nell’intervista a Oasis – Nel 2012 quando sono arrivato in Siria, Isis non era ancora coinvolto a pieno titolo nel conflitto, ma iniziava a reclutare i giovani”. Poi l’Isis è cresciuto e la situazione è cambiata: “Nel 2012 noi che avevamo combattuto le rivoluzioni eravamo considerati degli eroi, anche dai media occidentali”, dice Sam che oggi non potrebbe mai tornare in Siria. “Non potrei neppure combattere dalla stessa parte in cui ho combattuto nel 2012, perché sarei arrestato una volta tornato in Occidente”.