A margine del settimanale incontro del gabinetto del governo israeliano — che ha tradizionalmente luogo di domenica, primo giorno feriale in Israele — Benjamin Netanyahu ha fatto sapere ieri di aver deciso di bloccare il versamento mensile all’Autorità Palestinese delle imposte che Israele raccoglie a suo nome.
Tale versamento, relativo allo scorso dicembre ed ammontante a 127 milioni di dollari (pari a 106 milioni di euro), è stato sospeso in risposta alla decisione, che l’Autorità Palestinese aveva preso venerdì scorso, di sottoscrivere il trattato istitutivo della Corte Penale Internazionale. Ciò renderebbe passibili di giudizio da parte di tale tribunale atti come ad esempio le uccisioni di leader di Hamas che Israele compie mediante bombardamenti mirati su case o su auto in movimento in territorio palestinese: atti che gli israeliani considerano legittime azioni militari, ma che a norma del diritto internazionale verrebbero facilmente giudicati come dei puri e semplici omicidi.
Nella prospettiva di quel “boia chi molla” che caratterizza il suo governo, non è bastato a Netanyahu il successo diplomatico ottenuto di recente all’Onu, dove la risoluzione con cui si chiedeva il riconoscimento della Palestina come Stato non ha ottenuto al Consiglio di Sicurezza la maggioranza necessaria dei voti, e quindi è stata respinta anche senza che gli Stati Uniti facessero uso del loro diritto di veto. Mentre si avvicinano in Israele le elezioni politiche, che avranno luogo il prossimo 17 marzo, per uno dei quei paradossi di cui la storia non è avara, il “boia chi molla” di Netanyahu trova il suo maggior sostegno nell’uguale e contrario “boia chi molla” di Hamas a esclusivo danno dei due popoli coinvolti e ad esclusivo vantaggio dell’industria mondiale degli armamenti.
Al di là del caso specifico, il blocco dei versamenti di cui si diceva documenta poi ulteriormente quanto forte e multiforme sia la presa di Israele sull’Autorità Palestinese. Questa cosiddetta Autorità è tenuta per la gola da Israele in ogni campo. Non soltanto ha sul proprio territorio un controllo soltanto residuale, essendone tutti i punti-chiave presidiati dalle forze armate israeliane; non soltanto non ha sovranità alcuna in campo monetario; non soltanto non può commerciare con l’estero se non tramite porti e aeroporti israeliani. Oltre a tutto questo, e a molto altro, deve affidarsi a Israele persino per quanto concerne la raccolta delle proprie imposte. Guardando le cose da lontano può sembrare che nei momenti in cui la tensione non è alta i rapporti tra israeliani e palestinesi possono essere abbastanza fluidi. Invece non è affatto così. Ancor più che nei momenti di crisi, la molla delle incomprensioni e dei rancori tra i due popoli si carica nei periodi “normali”, a causa del quotidiano sommarsi di discriminazioni e umiliazioni da una parte, e di diffidenza e paura dall’altra.
Tutto ciò non cessa di far crescere tra israeliani e palestinesi un muro di incomprensione reciproca i cui effetti sono anche più gravi di quelli pur molto rilevanti provocati dal muro di cemento che Israele ha costruito nelle aree di più intensa prossimità fra il suo territorio e quello che sarebbe dell’Autorità Palestinese. Soprattutto a ciò contribuisce poi la politica israeliana degli “insediamenti”, ovvero della costruzione in territorio palestinese di quartieri riservati a coloni israeliani edificati su aree a tal fine confiscate ai loro proprietari; e con tutto ciò che ne consegue in termini di costruzione di strade riservate, captazione di fonti d’acqua, presidi militari. Quella degli “insediamenti” è una politica di aggressione strisciante ma continua, che ipso facto impedisce qualsiasi effettivo passo avanti sulla via della pace.
Per quanto concerne Israele la sospensione di tale politica, nonché il ritiro di tali “insediamenti” ovunque possibile, è ciò che in sede internazionale si dovrebbe esigere quale conditio sin qua non a qualsiasi piano di pace e di sicurezza garantite. Per quanto concerne invece il campo palestinese la conditio sin qua non che in sede internazionale si dovrebbe altrettanto esigere è il ritorno alla realtà dopo decenni di maldestri sogni che hanno fruttato ai palestinesi e a tutto il mondo arabo soltanto sangue, sconfitte, dipendenza economica e ristagno sociale. Israele è nel Vicino Oriente una presenza consolidata e ineludibile. Pretendere di risolvere i propri problemi sognando di liberarsene non serve a nulla. Viceversa in un Levante finalmente in pace Israele diventerebbe un potente motore di sviluppo per tutta la regione. L’Unione Europea avrebbe molte carte da giocare positivamente nella situazione. E se non fosse ancora impastoiata in presunzioni e in prevenzioni degne di un illuminismo bambino, forse comprensibile nel secolo XVIII ma non oggi, l’Unione potrebbe in tale prospettiva trovare nel Papa un grande alleato.
Per farsene un’idea basta andarsi a leggere l’intervista a mons. Silvano Tomasi, osservatore permanente della Santa Sede presso le Nazioni Unite a Ginevra, pubblicata su ilsussidiario lo scorso 26 dicembre. Riusciranno i “cattolici adulti” e i “laici illuminati” dei governi europei a capire ciò che, con riguardo al caso Usa/Cuba, hanno già capito un canuto rivoluzionario cubano come Raul Castro e un vago protestante americano di mezza età come Barack Obama? Speriamo di sì.