Tre persone sono rimaste uccise e 20 ferite dopo una giornata di sangue a Gerusalemme. Due palestinesi hanno aperto il fuoco a bordo di un autobus e accoltellato i passeggeri, uccidendo un uomo di 60 anni. Quasi in simultanea un’auto è stata lanciata in corsa contro la fermata dell’autobus. Quindi il palestinese che la guidava è sceso dall’auto accoltellando i feriti. Quattro passanti israeliani sono stati inoltre pugnalati da un palestinese a Raanana. Per Camille Eid, opinionista libanese e giornalista di Avvenire, “questi episodi vanno letti come una degradazione delle forme di resistenza. Quanto sta avvenendo in Palestina è l’emulazione in piccola scala di quanto è perpetrato in Siria e Iraq, e questo contagio non giova certo alla causa palestinese”.



Perché queste persone sembrano avere dimenticato la loro umanità fino al punto di compiere gesti così efferati?

Pugnalare una persona è un gesto di follia e di disperazione totale. Nella prima Intifada avevamo assistito ad adolescenti disarmati che lanciavano pietre contro i blindati israeliani, evocando l’immagine di Davide contro Golia. Ma aggredire un colono o uno stesso poliziotto con un coltello è tutto tranne che una forma di resistenza civile.



Da che cosa nascono secondo lei?

Leggo questi episodi come una degradazione delle forme di resistenza. Il contesto regionale del resto ha visto il diffondersi di forme di violenza inaudite. Bisogna tornare indietro di secoli per trovare persone bruciate vive o annegate nelle gabbie, piuttosto che decapitate nelle piazze centrali. La violenza in Medio Oriente è ormai il nostro pane quotidiano. Quanto sta avvenendo in Palestina è l’emulazione in piccola scala di quanto è perpetrato in Siria e Iraq, e questo contagio non giova certo alla causa palestinese.

Questa escalation nasce più da motivazioni economiche, politiche o sociali?



La metà della popolazione palestinese è al soldo del governo palestinese stesso. Le violenze quindi vanno contro il suo interesse anche dal punto di vista economico. Il clima attuale non è inoltre sufficiente per creare una nuova Intifada, anche perché è cambiato lo stesso contesto. Palestinesi e israeliani non vivono più nelle stesse città come un tempo.

Che cosa è cambiato?

Il 90% della popolazione della Cisgiordania oggi vive nel 18% del territorio sotto la gestione e il controllo dell’Anp. Il contatto diretto tra palestinesi e israeliani è limitato a quelle zone dove sono presenti insediamenti di coloni oppure a Gerusalemme Est.

E a Gaza che cosa sta avvenendo?

Gaza non si solleva per la semplice ragione che nella Striscia non ci sono più israeliani. Nel 2011 Khaled Meshaal, presidente dell’ufficio politico di Hamas, parlando da Damasco invitò Gaza a sollevarsi. Un altro dirigente di Hamas gli rispose beffardo: “Sollevarsi contro chi?”.

Il fatto che non ci sia più un contato diretto tra israeliani e palestinesi è positivo o negativo?

C’è un’insofferenza maggiore rispetto al passato, legata al fatto che i quattro quinti dei territori sono in mano a Israele. I palestinesi vivono quindi in ghetti. Il contatto fisico tra palestinesi e israeliani oggi è raro anche per l’effetto degli accordi di Oslo, a differenza di quanto avveniva durante la prima Intifada. Rimane l’eccezione di Hebron, dove avvengono ancora degli scontri.

 

Quanto è forte il legame tra quanto sta avvenendo in Palestina e l’Isis?

Il fenomeno Isis ha contagiato Paesi molto più lontani della Palestina. La questione palestinese non fa parte della retorica quotidiana dell’Isis, ma sappiamo comunque che ci sono decine e decine di palestinesi che si sono uniti alle fila del Califfato. Quest’ultimo del resto è stato anticipato in Palestina.

 

In che senso?

Prima della nascita dello stesso Califfato, a Gaza era sorto un emirato islamico soffocato poi con il sangue da parte di Hamas. Le frange islamiste palestinesi oggi considerano Hamas troppo tiepida e l’accusano di volere scendere a patti con il nemico. Hamas alla fine si è trovato ad avere a che fare con qualcuno che l’ha superato. Da un punto di vista numerico non sono così consistenti, ma sono riusciti a provocare diversi guai, mostrando al mondo un volto più “sporco” di un tempo della lotta del popolo palestinese.

 

In questa deriva, quali sono le responsabilità di Abu Mazen?

Uno può essere responsabile se ha un’autorità effettiva, e io mi domando quale governo abbia questa autorità nei confronti dei palestinesi. Né Abu Mazen né Hamas vogliono dare inizio a una nuova Intifada. Conoscono entrambi benissimo quali sarebbero le conseguenze, ma nello stesso tempo vogliono trarre il massimo vantaggio politico dai recenti sviluppi e quindi tengono il piede in due scarpe. E’ per questo che non sconfessano fino in fondo chi compie gli attentati. L’attenzione della comunità internazionale del resto è concentrata sull’Isis, e quindi di tutto sente il bisogno tranne che di nuovi guai in Palestina.

 

(Pietro Vernizzi)