La netta opposizione di Obama nel 2003 alla guerra in Iraq, che lo differenziava anche da altri candidati democratici, come Hillary Clinton, fu tra i motivi che nel 2008 lo portarono alla presidenza degli Stati Uniti. Inoltre, il suo programma prevedeva l’accelerazione del ritiro dall’Afghanistan e dall’Iraq e il tutto gli fece guadagnare un affrettato, pur non sollecitato, Premio Nobel per la pace. Sette anni dopo, gli americani sono ancora bloccati in Afghanistan per la crescente minaccia talebana, la situazione in Iraq è decisamente peggiorata con la nascita dello stato islamico e Obama, di suo, ha aggiunto altre due guerre: Libia e Siria. Apparentemente disinteressato al caos generato in Libia, forse convinto che tocchi agli europei risolverlo, Obama ha invece continuato a occuparsi attivamente della Siria.
Qui sembra essersi decisamente infilato in un cul de sac, reso evidente dall’intervento russo e iraniano a sostegno del regime di Damasco. Nell’appoggio, di per sé giusto, dato agli oppositori iniziali del violento regime di Assad, Obama sembra aver applicato criteri di giudizio tipicamente occidentali, ma lontani dalla realtà locale. Ha cioè commesso lo stesso errore di Bush in Iraq, tentando di “esportare” la democrazia con le armi, sia pure senza mandare soldati sul campo. Dopo quattro anni di guerra civile, i ribelli laici o comunque moderati sono ridotti a minoranza e la lotta contro il regime è guidata da fazioni estremiste, come la qaedista al-Nusra, o dalle milizie dell’Isis. Assad non è stato abbattuto e questo dovrebbe far riflettere sull’appoggio popolare che ha dimostrato di avere, alawiti ed altre minoranze che evidentemente temono di più i suoi nemici. Inoltre, a differenza di quanto accaduto all’esercito governativo iracheno, quello siriano è rimasto sufficientemente forte ed è ora al contrattacco grazie al sostegno militare di Mosca e Teheran, oltre che dei soliti Hezbollah sciiti libanesi.
I ribelli curdi siriani, protagonisti di una accanita lotta contro l’Isis, simboleggiata dalla difesa di Kobane, teoricamente sostenuti dagli americani devono affrontare gli attacchi della Turchia, alleata degli Stati Uniti. In questa situazione sembrerebbe ovvia ed auspicabile un’intesa tra Washington e Mosca per gestire non solo la guerra all’estremismo islamico, ma anche la transizione del Paese verso una difficile pace. La guerra civile ha acuito forse irreparabilmente i contrasti storici tra maggioranza sunnita e le varie minoranze. Gli alawiti in particolare temono il revanscismo dei sunniti finora oppressi, in una situazione simile a quanto successo, a parti invertite, in Iraq tra sciiti e sunniti.
Sorprende perciò il rifiuto di Obama di collaborare con Putin e appare fasulla la precondizione che Assad se ne vada: il vero problema è il “dopo Bashar” e Obama dovrebbe specificare la sua ipotesi a tal proposito. Non sembra infatti facile l’ipotesi di un governo di “salute nazionale” che unisca alawiti (rappresentati da chi?), curdi, moderati e jihadisti in una battaglia comune contro l’Isis, ma soprattutto per poi dare un assetto definivo alla Siria. Per questo parlavo di cul de sac.
Il generale Jean, nella sua intervista al sussidiario, giustamente identifica nell’opposizione di Arabia Saudita e Turchia il motivo del rifiuto, ma così Obama si preclude ogni ragionevole via d’uscita. Se Russia e Iran riescono a infliggere sconfitte rilevanti all’Isis, magari estendendo il loro intervento all’Iraq, Obama e gli Usa saranno ritenuti incapaci e inaffidabili anche dal mondo sunnita contrario allo stato islamico. Se Obama poi commettesse il tragico errore di presentarsi come alleato dei sunniti contro gli sciiti, oltre che mettere a serio repentaglio l’accordo con Teheran sul nucleare, uno dei suoi pochi successi di politica estera, provocherebbe un disastroso allargamento del conflitto nella regione. Non a caso, pur nel procedere di conserva con l’Iran, Putin sta tenendo aperti i canali con le potenze sunnite, Turchia da un lato e Arabia Saudita e Stati del Golfo dall’altro, come provano i recenti incontri ad alto livello.
Arabia Saudita e Turchia avrebbero ben poco da guadagnare, la prima perché vedrebbe estendersi al suo interno il conflitto yemenita, dato che circa il 15% della sua popolazione è di rito sciita. La Turchia finirebbe per perdere quel ruolo centrale, pur ambiguo, finora tenuto e dovrebbe affrontare grossi problemi interni, a partire dal riaccendersi violento della questione curda. Né sono da trascurare gli effetti sulla questione israelo-palestinese, tornata malamente alla ribalta con connotati più fortemente confessionali. Insomma, un catastrofico gioco in cui tutti perderebbero, tranne forse i trafficanti di armi.
Per quanto possa risultare costosa, Obama non ha altra scelta che collaborare seriamente con Putin, che non dovrebbe avere alcun interesse a “umiliare” gli Stati Uniti: in fondo, anche nell’accordo di Teheran fu Obama ha riconoscere il prezioso aiuto di Putin, non quest’ultimo a vantarsene. Collaborando insieme, Russia e Stati Uniti potrebbero ragionevolmente promuovere un assetto della regione che assicuri un soddisfacente equilibrio tra potenze globali e regionali e, in questo quadro, Russia e Iran non avrebbero più gravi difficoltà ad allontanare Bashar al-Assad dal governo.
E’ improbabile che la Siria possa rimanere unita e in una situazione simile potrebbe trovarsi anche l’Iraq, entrambi Stati “creati” da Inghilterra e Francia dopo la caduta dell’Impero ottomano. Una soluzione certamente non semplice da raggiungere, ma che potrebbe dar luogo a una equilibrata divisione delle sfere di influenza tra Turchia e Iran, rimanendo l’Arabia Saudita il vero problema. Finora i sauditi hanno potuto giocare su più tavoli, “alleati” dell’Occidente e al contempo finanziatori di movimenti estremisti in tutto il mondo musulmano. Un accordo tra Turchia e Iran, promosso congiuntamente da Usa e Russia, toglierebbe ai sauditi buona parte delle loro capacità di manovra e porterebbe alla luce tutte le contraddizioni di questo Stato che si comporta al suo interno in modo non troppo dissimile dallo stato islamico. I rischi di uno scontro diretto, pur non voluto, tra Stati Uniti e Russia non sono marginali e le conseguenze sarebbero tragiche.
Finora Putin sembra aver maggior realismo di Obama e non è da escludere che sia Mosca alla fine a riuscire a mettere d’accordo Teheran, Baghdad, Ankara e Riyad. Ma ciò avverrebbe in funzione antiamericana e sarebbe la sconfitta definitiva di un Premio Nobel così pronto a far (fare) la guerra.