Malgrado le reiterate dichiarazioni sull’inutilità di qualsiasi trattativa prima della caduta di Assad, gli Stati Uniti stanno in realtà dialogando con quella che è ormai “la” controparte nella questione siriana: la Russia di Putin. Pur irritati dai raid aerei di Mosca in aiuto del vecchio alleato di Damasco, gli Usa hanno tuttavia acconsentito a firmare con la Russia un protocollo contenente una serie di regole e disposizioni dirette a evitare incidenti tra le forze aeree dei due Stati. Un atto ragionevole, ma che rappresenta la esplicita accettazione della presenza russa in Siria.



Altrettanto importante, anche se con risultati meno evidenti, l’incontro di venerdì scorso a Vienna tra i ministri degli Esteri americano e russo, allargato poi ai ministri della Turchia e della Arabia Saudita, per tentare di trovare una soluzione al groviglio siriano. L’Iran non ha partecipato alla riunione per l’opposizione dei sauditi.



Sia Usa, Turchia e Arabia Saudita, da un lato e Russia, dall’altro, sono rimaste apparentemente ferme sulle loro distanti posizioni, ma è opinione diffusa tra gli osservatori che in realtà si stia prospettando l’ipotesi di un accantonamento temporaneo della questione Assad in vista di una collaborazione nella lotta al terrorismo.

E’ questa una nuova conferma che la crisi siriana può essere risolta solo con un accordo tra Mosca e Washington, un accordo al quale gli altri attori si dovranno adeguare, sia pure con qualche difficoltà.

Gli obiettivi di Russia e Iran sembrano in buona parte coincidenti: assicurare l’esistenza di un solido Stato nell’area occupata dalla minoranza alawita e riaffermare il loro ruolo determinante nella regione. In questo modo, la Russia manterrebbe la sua presenza nell’area, in particolare mettendo in sicurezza la base navale di Tartus, unica russa nel Mediterraneo.



L’Iran potrebbe continuare a difendere, e a “supervisionare”, le minoranze sciite in Siria e Libano che, insieme agli sciiti del sud dell’Iraq, formano la cosiddetta “mezzaluna sciita”. Dopo di che, Bashar al-Assad potrà essere accantonato.

L’eventuale accordo sulla Siria lascerebbe aperte diverse questioni tra Iran e Arabia Saudita, dalle minoranze sciite represse in questo Paese, alla rivolta degli sciiti Houthi in Yemen, alle passate rivendicazioni sul Bahrain, a maggioranza sciita ma governato da una dinastia sunnita. Inoltre, i sauditi vedono con preoccupazione la ripresa della produzione ed esportazione di petrolio e gas iraniano, conseguente all’accordo sul nucleare voluto dal loro alleato Barack Obama.

Lineare appare anche la politica di Erdogan, diretta a riaffermare la Turchia come massima potenza regionale, almeno nel mondo sunnita, avendo qui come antagonista l’Arabia Saudita. Con l’Iran sciita l’obiettivo non può che essere, realisticamente, una divisione delle aree di influenza. Erdogan non ha di certo dimenticato l’esito catastrofico della guerra dell’Iraq di Saddam Hussein contro l’Iran di Khomeini, dal 1980 al 1988.

Erdogan non ha esitato a usare in modo spregiudicato tutti gli strumenti a sua disposizione. I contrasti con la Russia per il sostegno ad Assad e l’annessione della Crimea non hanno impedito solidi rapporti economici, soprattutto in campo energetico, dai gasdotti alle centrali nucleari, utilizzabili anche come armi politiche, come di recente con la minaccia di sospendere la collaborazione nel nucleare.

Nonostante l’appartenenza della Turchia alla Nato, Erdogan ha autorizzato solo ultimamente l’utilizzo dei suoi aeroporti per i raid contro l’Isis. Quando ha deciso di partecipare direttamente ai bombardamenti, i suoi aerei sono andati soprattutto contro i curdi.

Le ondate di profughi che dalla Turchia stanno arrivando in Europa sono un’altra arma in mano ad Erdogan, che ha spinto Angela Merkel alla sua criticata visita ad Ankara e alla improbabile promessa di riaprire la questione dell’adesione della Turchia all’Ue.

Altrettanto spregiudicato l’atteggiamento di Erdogan verso l’Isis, che per il momento è utile alla sua politica, come elemento destabilizzante Siria e Iraq che facilita l’intervento della Turchia. Difficilmente lo Stato islamico potrà essere definitivamente sconfitto senza un pesante intervento di forze militari terrestri ed Erdogan potrebbe non aver problemi, quando lo ritenesse opportuno, a impiegare l’esercito turco, il più forte della regione.

L’Isis ha effettuato due sanguinosi attentati in territorio turco, ma con obiettivo i curdi e i loro sostenitori. La strage di Ankara, con un centinaio di morti, ha indotto esponenti di Hdp, il partito dei curdi di Turchia, ad accusare il governo di averlo provocato, o consentito, per ragioni elettorali.

Il primo di novembre si terranno elezioni politiche anticipate, perché in quelle di giugno il partito di Erdogan, l’Akp, aveva perso la maggioranza assoluta a causa dell’avanzata dei curdi dello Hdp e non era stato possibile costituire un governo di coalizione. Il clima nel Paese è piuttosto teso, sia per le accuse tra governo e curdi già citate, sia per un rafforzamento delle misure di sicurezza che hanno, però, colpito anche diversi media dell’opposizione. Negli ultimi giorni si è aggiunta la condanna di 244 partecipanti alle proteste del 2013 nel Gezi Park, dove otto manifestanti rimasero uccisi negli scontri con la polizia.

L’obiettivo che Erdogan sembra nuovamente proporsi è la conquista dei due terzi dei seggi, così da poter cambiare la Costituzione in senso presidenzialista senza dover indire un referendum. Il risultato sarebbe probabilmente un’accentuazione dei caratteri autoritari del governo all’interno e l’accelerazione all’esterno di quella che è stata definita politica neo ottomana.

Se l’Akp ottenesse solo la maggioranza assoluta ci si può aspettare la continuazione della attuale politica, mentre lo scenario diverrebbe confuso se si ripetesse la situazione di giugno. Dati i precedenti, sarebbe difficile una coalizione con il partito curdo e un governo con i laici del Chp sarebbe difficoltoso per gli islamisti, sia pure moderati, dell’Akp. Un’alleanza con i nazionalisti del Mhp porterebbe a una pericolosa svolta verso posizioni più estremiste.

Insomma, c’è da augurarsi una “moderata” vittoria di Erdogan che lasci sostanzialmente invariata la situazione e permetta a Russia e Stati Uniti di finalmente gestire in modo ragionevole tutta la questione. Ricordando a Putin e Obama che non si tratta di un war game: sono già morte più di 250.000 persone, vi sono milioni di rifugiati e un Paese distrutto. Tutto reale.