A giudicare dalle loro reazioni si potrebbe pensare che il governo statunitense e i suoi alleati siano stati presi alla sprovvista dalla decisione della Russia di rafforzare la propria posizione in Siria. Pur considerando inetta la politica di Obama nella regione, la cosa sembra incredibile e tutto fa credere a una reazione di facciata per cercare di uscire dal vicolo chiuso in cui ci si è cacciati.



Qualunque sia il giudizio su di essa, la decisione di Putin è coerente con la strategia di appoggio al governo di Damasco finora seguita, di conserva con l’altra potenza regionale amica, l’Iran. Di fronte al progressivo indebolimento di Assad e all’incapacità della “coalizione” guidata dagli Usa di fermare l’Isis, la Russia è intervenuta più direttamente, rafforzando la sua presenza militare in Siria. Dico rafforzare, perché è evidente che soldati russi erano già presenti in Siria, se non altro per presidiare la base navale di Tartus.



La mossa russa scopre definitivamente il drammatico errore di calcolo compiuto da Obama, convinto di poter abbattere in breve tempo il regime dittatoriale di Assad e sostituirlo con un governo composto da oppositori moderati sostenuti dagli Usa. Dopo quattro anni di feroce guerra civile, Assad è ancora in piedi e l’opposizione definita moderata è stata oscurata dagli estremisti di Isis e dalle fazioni collegate ad al Qaeda. Inoltre, gli errori compiuti nel dopoguerra in Iraq, anche da Obama, hanno favorito la crescita dell’Isis e reso i curdi gli unici veri oppositori, nei confronti dei quali l’atteggiamento americano appare, però, troppo conservativo per timore delle reazioni della Turchia.



La Russia viene accusata di non condurre i suoi attacchi aerei solo contro l’Isis, ma anche contro altri oppositori del regime, il che è vero, ma coerente con le ragioni ultime dell’intervento russo: la difesa dei propri interessi nella regione e la conseguente necessità di evitare il crollo del governo di Damasco, anche se non necessariamente di Bashar al-Assad. Discutibile quanto si vuole, ma gli obiettivi, come gli amici e i nemici, della strategia russa sono ben identificabili, a differenza di quella americana, e ciò sta diventando evidente sia all’interno che all’esterno degli Stati Uniti.

L’intervento della Russia pone anche problemi dal punto di vista del diritto internazionale, perché Mosca può affermare di intervenire su richiesta e in pieno accordo con il governo di Damasco, che in punta di diritto è ancora il governo legittimo in Siria e come tale continua ad essere rappresentato all’Onu. Ma su quale principio si basano i bombardamenti americani? Nei confronti di Washington si potrebbero sollevare le stesse accuse di violazione dell’integrità territoriale della Siria che gli Stati Uniti rivolgono alla Russia per l’Ucraina. Visti gli esiti finora raggiunti in Siria, come in Libia, anche la giustificazione dell’intervento umanitario sembrerebbe essere problematico.

Anche la Russia non ha di fronte una strada completamente in discesa, viste le reazioni negative al suo intervento da parte di altri Stati della regione, in particolare Arabia Saudita e Turchia. I rapporti con la prima sono resi molto difficili dai rapporti amichevoli tra Russia e Iran, avversario dell’Arabia Saudita per questioni di dominanza nell’area, aggravate da questioni religiose, il conflitto tra sunniti e sciiti. Il conflitto è dichiarato nella guerra civile in Yemen e ormai evidente anche nel caso della Siria. Ultimamente, tuttavia, erano stati avviati contatti tra Mosca e Riyadh per incrementare le relazioni economiche tra i due Paesi e, soprattutto, trovare un modus vivendi nella spinosa questione della guerra sul prezzo del petrolio.

Con la Turchia i rapporti economici sono già piuttosto avanzati, in particolare proprio nel settore energetico, ma le divergenze politiche sono notevoli, per la criticata annessione della Crimea da parte della Russia, per il latente antagonismo nell’Asia Centrale turcofona, ma soprattutto nella questione siriana. Per la Turchia, come per l’Arabia Saudita e gli Stati Uniti, l’obiettivo principale rimane la caduta di Assad e il mantenimento dell’integrità dello Stato siriano, così come di quello iracheno.

Considerando la situazione sul campo, sembra più realistica l’ipotesi russa di una divisione dell’area in due Stati secondo linee etnico/religiose, superando una unità artificiale imposta dagli accordi tra Gran Bretagna e Francia dopo la caduta dell’Impero ottomano e le due guerre mondiali. Se la costituzione di due Stati sciiti in Siria e in Iraq potrebbe essere relativamente semplice e avrebbe comunque un unico “referente” esterno, l’Iran, molto più complicata si presenta la situazione nelle zone sunnite, dove non sembra esservi un’unica forza unificante e le potenze esterne coinvolte sono almeno due, le citate Arabia Saudita e Turchia.

Inoltre, il definitivo riconoscimento di uno Stato curdo, già di fatto esistente in Iraq e che potrebbe aggregare le zone curde della Siria, porrebbe gravi problemi a Istanbul, perché sarebbe uno stimolo fortissimo per le richieste di indipendenza della minoranza curda in Turchia.

Qualunque soluzione diretta a stabilizzare la situazione nella regione, tuttavia, prevede la sconfitta dell’Isis e la neutralizzazione di altre formazioni islamiste, a partire da quelle aderenti ad al Qaeda. Su questa lotta vi è la possibilità di un’ampia intesa che coinvolga Arabia, Emirati Arabi, Turchia, Iran, Russia e la coalizione guidata dagli Usa. E’ un’intesa che rischia di essere vanificata proprio dalle divergenze sulla gestione del dopo Assad e Isis.

Di tutto questo sarebbe stato bene occuparsi prima di aprire avventatamente il vaso di Pandora siro-iracheno.