Come  salvare Israele dalla Terza Intifada? Gli editorialisti israeliani si esercitano in questi giorni nel porre questa domanda e soprattutto nel tentativo di trovare una risposta. Non è importante, in vero, la definizione di Terza Intifada. La violenza è sotto gli occhi di tutti, palestinesi ed israeliani. Gli omicidi ed i ferimenti, compiuti o subiti, si susseguono da Nablus a Tulkarem, da Gerusalemme a Betlemme. Gerusalemme araba e altre città e vasti territori palestinesi sono nella morsa, permanente, dell’esercito israeliano. Tutto questo è sufficientemente grande da definirsi “Terza Intifada”? Per una  volta non ci si esercita intorno a questa ulteriore domanda. La violenza esiste, dicono i tanti analisti di queste ore, e non serve disquisire sulla sua grandezza.  



Un’attenzione assai più grande viene posta, invece, sulla ricerca delle cause e sulle azioni da compiere per spegnere l’incendio. Si legge sul più diffuso quotidiano israeliano Yedioth Ahronoth: “Gli attacchi a Gerusalemme sono largamente il risultato della frustrazione tra i giovani palestinesi”. Un’affermazione, in verità, assai diffusa e certamente condivisibile. E’ un’analisi delle radici della violenza (di quella palestinese) che vede intrecciarsi politica e sociologia. E questo, paradossalmente, è un bene. Spezza, infatti, quell’approccio al conflitto israelo-palestinese segnato dalla presunzione di risolverlo o controllarlo in termini economici. Quante volte Netanyahu ha parlato, infatti, della crescita economica palestinese come del volano da attivare per portare ad un accordo politico? E quante volte gli Stati Uniti, gli Stati europei ed anche l’Italia hanno ridotto la loro politica verso i palestinesi nella elargizione di aiuti economici volti alla sopravvivenza?  



La frustrazione dei giovani, invece, è il frutto amaro di un’incapacità a vedere un cambiamento positivo. Ed i responsabili di uno status quo insopportabile vengono individuati tra gli israeliani ed anche tra i palestinesi. Aveva avvertito nelle settimane scorse Amira Hass, giornalista israeliana che vive nei territori palestinesi: attenzione, il prestigio dell’Autorità nazionale palestinese si sta dissolvendo. Faceva il caso della famiglia palestinese arsa viva dai coloni israeliani in un villaggio vicino a Nablus. Se la polizia palestinese è incapace di proteggere la propria gente, se i coloni rimangono impuniti, allora — diceva Amira Hass — l’odio e la ribellione colpirà non solo gli israeliani ma anche quel che rimane dell’Autorità palestinese. 



Da Nablus a Gerusalemme. Quando gli ebrei ultraortodossi salgono, ormai ogni giorno, dal Muro del Pianto fino alla Spianata delle Moschee, scortati da poliziotti e soldati, cosa quei giovani palestinesi potranno pensare? Che gli israeliani, anzi che i poliziotti di Netanyahu stanno cambiando la realtà del vivere quotidiano, mentre i politici palestinesi, giordani, arabi sono incapaci di difendere le loro case ed i luoghi di preghiera. 

L’uso dei coltelli e delle pietre, più ancora di quello dei fucili e delle pistole, da il senso dell’impotenza raggiunta e di una reazione simbolica ma diffusa. Quattro israeliani uccisi in pochi giorni, ma altrettanti palestinesi uccisi in poche ore a cavallo di domenica. Un bambino di 13 anni a Betlemme, un ragazzo di 18 anni a Tulkarem… 

“Occorrono mezzi inusuali per fronteggiare la  situazione” si spingono a dire alcuni “esperti” israeliani. Tra questi mezzi anche il coprifuoco totale, anche se “temporaneo”, del Monte del Tempio (ovvero la Spianata delle Moschee). Non c’è proposta più esplicita di questa nel mostrare il fallimento di tante misure di polizia fin qui prese. Una proposta nel contempo che fa emergere la volontà di ribaltare una situazione di convivenza tra ebrei e musulmani, storicamente consolidatasi: con gli ebrei al Muro del Pianto ed i musulmani sulla Spianata delle Moschee. 

Tra le misure inusuali vengono evocate anche quelle diplomatiche: “contatti diretti” tra Netanyahu e Abu Mazen, con la partecipazione degli americani. Si dovrebbe parlare in questi incontri non di soluzioni per una pace stabile, ma dei modi per una “de-escalation”, per una riduzione della violenza. 

La frustrazione dei giovani palestinesi, ne siamo certi, non ne trarrà alcun giovamento.