C’è qualcosa di epico, dunque di emozionante universalmente, nella vicenda umana di Aung San Suu Kyi. L’abbiamo vista al voto per la prima volta, giacchino rosso, gonna bianca, lo stesso andamento eretto, la stessa dignità non esibita. Qualche ruga in più, su un volto perennemente uguale da decine di anni. Identica determinazione, senza neppure l’esultanza umanissima per la vittoria, che fa giustizia di soprusi e violenze e menzogne intollerabili, fin da quando è nata. 



Era bambina, quando il papà padre dell’indipendenza birmana dal Regno Unito, che ottenne pacificamente, fu assassinato dagli avversari. Di fondamentalisti ce ne sono sempre stati. Da giovane donna scelse di tornare nella sua patria in memoria della sua storia e di quell’idea di libertà e democrazia che aveva in cuore, e aveva respirato nella vituperata cultura occidentale. Prigioniera per 15 anni, con la concessione parziale di domiciliari che parvero un regalo di cui esser grati.  



La sua mitezza, la chiarezza nel porsi davanti a un mondo sempre più consapevole, e deciso a non dimenticarla, il pacifismo vero, con cui ha sempre tenuto a bada la reazione aggressiva dei sostenitori, le fanno vincere il Nobel per la pace, sì. Ed è uno dei pochi Nobel assegnati a ragione, senza compromessi con le ideologie o gli opportunismi politici. Poteva bastare, per stare fuori dai giochi, per esercitare un’autorevolezza riconosciuta. Invece  questa donnina che non sa invecchiare si butta nell’agone, rischiando ancora, e non solo la sconfitta. 

I fondamentalisti ci sono sempre, e il regime straniato da quest’ondata di voti democratici fa buon viso a cattivo gioco, non si sa fino a quando, e perché. Ma lei c’è, onnipresente, tra la sua gente, nei comizi, nei dibattiti, nei consessi internazionali in cui ora può parlare, e senza trionfalismi può dire, a fine scrutinio di elezioni che sembravano irrealizzabili: “credo proprio che abbiamo vinto”. 



Una dittatura militare chiusa con un sorriso, da una donna che è tutt’altro che una virago, così femminile, così dolce e aggraziata. Beati i miti, ci viene da dire. Beati gli operatori di pace, perché vinceranno, alla fine. Ci vorrà più tempo, sarà più dura, qualche volta si perderanno speranze e forze. Ma alla fine, vinceranno, anche qui in terra. Intanto perché cambieranno il modo di guardare, di ragionare. Infonderanno coraggio, e passione. Faranno credere che cambiare è possibile, e senza rivolte in armi, senza guerre fatali. Anche ai più umili, facilmente manipolabili con la paura e la fame, Aung ha strappato consensi, e il suo partito, la Lega Nazionale per la Democrazia, ha superato il 70% dei voti. Ma non è finita. 

La pseudo Costituzione birmana, scritta dai colonnelli, ha stabilito che il 25% comunque dei seggi del Parlamento vadano alle Forze Armate. Le negano il diritto a guidare il governo con la scusa che i suoi figli hanno passaporto straniero: avrebbero dovuto, con la madre esule o prigioniera, tornare liberamente in patria ed affrontare un processo, per farle compagnia in galera… Non sarà facile, tenere a bada quest’opposizione di merito, inossidabile, corrotta, che ha nel suo stesso dna il potere, per poter sopravvivere. Ma la storia sa rivelare miracoli: o meglio, gli uomini che la storia ha reso “fatali”, segno per i presenti e i posteri. Protagonisti, capaci di modificare il corso degli eventi perché capaci di muovere il cuore.