Così come dopo l’11 settembre 2001, anche successivamente alle orrende stragi del 13 novembre scorso a Parigi c’è d’attendersi un’escalation militare in una zona già a lungo provata da ogni sorta di distruzioni e di massacri. Del resto la scaltra iniziativa di Putin, che s’è insinuata con successo tra le inerzie occidentali, lo faceva comunque prevedere.
Ancora una volta prevale la re-azione su qualsiasi ponderata, determinata e strutturata azione a medio-lungo temine in una zona che se da tempo è anche una valvola di sfogo delle tensioni internazionali, ormai rischia di diventare (se non lo è già) “il” caotico buco nero alle porte di casa (per l’Europa, specialmente) da cui può uscire ogni sorta di mostruosità.
Il sedicente stato islamico è un’entità nichilista che dal vuoto proviene e al vuoto conduce. Proprio laddove, con Damasco e Baghdad, la civiltà musulmana ha dato il meglio di sé per secoli, sconsiderate ed effimere esibizioni muscolari hanno di fatto portato alla dissoluzione di Iraq e Siria, paesi non certamente nelle mani di galantuomini, ma dove almeno i servizi educativi e sanitari (per dirne una) erano garantiti ed efficienti.
L’opinione pubblica occidentale è legittimamente allarmata, ma viene portata a prendersela essenzialmente con gli immigrati e gli stessi profughi, particolarmente se musulmani, quali potenziali portatori — magari neppure troppo sani — dei germi del fondamentalismo. Rattrista e stupisce l’inconsapevolezza che appunto nell’azione umanitaria a favore delle vittime di questa follia sia data invece proprio a noi la possibilità di operare ben altri e più determinanti “contagi”. Non parlo per idealismo buonista, ma sulla base di esperienze concrete. Un amico marocchino che si occupa di richiedenti asilo mi ha da poco raccontato di un pakistano, giunto stremato nel nostro paese. Quando, prima di cena, un inserviente, chiamandolo Singh, gli ha chiesto se preferisse mangiare pasta in bianco o al sugo, carne o pesce è scoppiato in lacrime. Tutti sono rimasti allibiti e gli han chiesto il motivo di una simile reazione. Continuando a piangere ha allora raccontato dei lunghi anni trascorsi in un paese del Golfo, dove il suo padrone, anch’egli musulmano, non l’aveva mai chiamato se non “animale” o “somaro”, dove ha sempre e solo potuto sfamarsi con una ciotola di riso, dove la sua stessa sopravvivenza dipendeva dall’umore con cui il boss si alzava dal letto.
Ora, tra gli infedeli, qualcuno lo chiamava finalmente col suo nome e gli chiedeva addirittura cosa volesse scegliere dal menu. “Questa gente potrà mai andare all’inferno?” è stata la sua emblematica domanda finale, che dovrebbe ricordarci cosa c’è veramente nei piatti di minestra che condividiamo!