BRUXELLES — Mi sveglio in una giornata grigia con pioggia mista a nevischio. Fuori dalla finestra tutto tace, staranno ancora tutti dormendo dopo la settimana di lavoro. Tutto normale per Bruxelles. Guardo il cellulare e leggo messaggi preoccupati di genitori, colleghi e amici. Non capisco che cosa sia successo e quindi inizio a guardare i siti internet dei giornali italiani e belgi alla ricerca di informazioni e di una spiegazione. Il primo ministro Charles Michel ha annunciato che a Bruxelles la minaccia terroristica è seria e imminente. Il livello di allerta è salito al massimo, quattro su una scala di quattro. Allora mi accorgo che c’è più silenzio del solito, poche auto che circolano in strada e pochi passanti. Un silenzio quasi spettrale per essere sabato, un giorno in cui normalmente la città si popola di vita nei quartieri e nelle vie.
Le informazioni iniziano a circolare sui siti di informazione e sui social network. Viene consigliato di non frequentare luoghi affollati e di restare a casa. Tutte le linee della metropolitana vengono chiuse fino a domenica pomeriggio; chiusa la stazione di Bruxelles Schuman, simbolo delle istituzioni europee. Vengono chiusi i centri commerciali e i negozi della zona di rue Neuve — il Corso Buenos Aires di Bruxelles; tutti gli altri negozi vengono invitati a chiudere. Vengono chiuse anche tutte le casette dei mercatini di Natale vicino alla Grand Place. Chiuse le piscine e i centri sportivi; chiusi i cinema. Annullati tutti i concerti e gli spettacoli, annullate le partite di calcio. Ci sono militari agli incroci delle vie e volanti della polizia con le sirene spiegate che sfrecciano per le vie. Una situazione surreale: una città blindata, chiusa e deserta.
Esco veloce per fare la spesa ed effettivamente c’è poca gente in giro. Tensione e sospetto negli sguardi incrociati per strada e al supermercato. Parlo al telefono con alcuni amici di Bruxelles per capire che cosa sta succedendo. Sono a casa da sola e ho un soprassalto al minimo rumore sospetto. Continuano ad arrivare messaggi preoccupati dall’Italia. Si respira aria di preoccupazione e tensione diffusa, nell’attesa che succeda qualcosa. A dispetto di tutto questo inizia a splendere il sole, per nulla scontato a Bruxelles.
In serata sui social network esce la notizia di un coprifuoco alle 18 ma non è mai stata confermata dalle fonti ufficiali. Semplicemente tutto è blindato, chiuso e deserto e quindi nessuno è uscito. Ceno a casa con un amico e decidiamo di andare a vedere la partita Juventus-Milan a casa di altri amici. Passiamo in auto da place Jourdan, una piazza vivace che solitamente si riempie di vita il sabato sera. Non c’è fila da Maison Antoine: se non fosse per la situazione di allerta sembrerebbe il momento adatto per mangiare le frites più famose della città senza attendere troppo. Guardiamo la partita di calcio in compagnia bevendo una birra e mangiando una fetta di torta. Apparentemente è una serata spensierata come ogni altro weekend.
Domenica rimane confermato lo stato di allerta 4 e il suggerimento di restare a casa. Tutto è chiuso ma questo non è poi così strano: a Bruxelles è tutto chiuso di domenica. Più per la preoccupazione di parenti e amici rimango a casa ed esco solo per andare a messa. A piedi incrocio numerose volanti della polizia e una volta arrivata in chiesa mi accorgo di avere paura che possa succedere qualcosa di brutto anche tra quelle mura che dovrebbero essere sicure. Le messe non sono state annullate, ma alcune parrocchie hanno deciso ugualmente di non celebrare. Si attendono le 19 per sapere se l’allerta è confermata anche per lunedì oppure se la vita può riprendere normalmente. Lo stato di allerta 4 viene confermato: le metro rimarranno chiuse, tutte le scuole e le università rimarranno chiuse e viene consigliato di lavorare da casa. Le istituzioni europee saranno aperte ma vengono annullati numerosi incontri; il Parlamento europeo sarà deserto non tanto per le minacce di attentati ma perché inizia la “settimana rossa”, cioè la settimana di sessione plenaria a Strasburgo. Nel frattempo non è successo nulla, la minaccia seria e imminente non c’è ancora stata, e quindi c’è ancora una tensione palpabile.
Sto cenando a casa con la mia coinquilina quando arriva un messaggio di un amico di Bruxelles: c’è un attentato in corso nel nostro quartiere, ci chiede se stiamo bene. Non abbiamo sentito nessun rumore e visto niente di strano. Sale la tensione e inizia una lunga serata incollate al computer alla ricerca di notizie sui siti di informazione, sui quotidiani, riceviamo messaggi e telefonate da amici di Bruxelles e dall’Italia. Aumenta l’agitazione e la paura per qualcosa che non sappiamo bene che cos’è e che tantomeno possiamo controllare. Le informazioni arrivano frammentate e contradditorie: è in corso un blitz della polizia vicino alla stazione centrale, poi le operazioni si spostano lentamente verso Sainte Catherine e Molenbeek, dei quartieri che frequentiamo raramente perché poco raccomandabili. Ci arriva la voce che forse è in corso un altro blitz a Etterbeek, nel nostro quartiere, ma non sentiamo o vediamo niente di strano dalle finestre di casa. La polizia chiede il silenzio alla stampa e sui social network per garantire la sicurezza delle operazioni in corso. Gli utenti invadono Twitter con foto di gatti per disturbare il flusso di informazioni che rischiava di essere di aiuto ai terroristi in fuga. La situazione potrebbe essere ridicola se non fosse per la tensione e per la paura che rimangono. Decidiamo di andare a dormire quando a mezzanotte arriva la notizia che le operazioni della polizia sono terminate.
Al risveglio di lunedì le temperature sono glaciali ma il sole splende. Le vie sono ancora deserte con poche auto in circolazione. Le forze dell’ordine hanno arrestato delle persone ma le informazioni sono poche perché le operazioni non sono ancora terminate. La giornata inizia quasi come se nulla fosse successo e rimango chiusa in casa a lavorare. Permane la tensione e la paura, con la speranza che la situazione torni ad essere sicura per poter tornare alla normalità. La vita continua ma è come se tutto fosse ancora in sospeso, nell’attesa che accada qualcosa.