Venezia senza Marco è come una città senza porto: toglietele il fascino dei suoi Marco e Venezia v’apparirà spoglia, come una donna disadorna, anche senza festa. Marco Polo è stato uno scrittore, viaggiatore e pure mercante, uno dei più grandi esploratori: giunse in Cina percorrendo la via della seta. Andò, conquistò, dopo 17 anni tornò: venne tumulato a Venezia, nella chiesa di San Lorenzo. Lui e l’altro Marco, quello dei Vangeli: nato non-veneziano, le sue spoglie furono trafugate con uno stratagemma da due mercanti lagunari che, nascondendole in una cesta di ortaggi e di carne da maiale, le portarono a Venezia, dove pochi anni dopo dettero inizio alla Basilica a lui intitolata. Pure la piazza: Piazza San Marco. Venezia, terra di partenze e di ritorni. Di memoria.
La memoria di Valeria Solesin, anche lei partita per scoprire, per scoprirsi, per diventare donna. Le note dell’Inno di Mameli e quelle della Marsigliese per una volta s’accordano, si armonizzano, quasi due pezzi di un unico spartito. Quasi che tra l’Italia e la Francia le Alpi, per una mattina, si fossero spostate per fare di due terre un’unica grande terra: la casa di Valeria, la terra della memoria di una ragazza partita come Marco Polo, sui suoi piedi, tornata come Marco l’Evangelista, sulla gondola di gondolieri listati a lutto.
Non un funerale religioso, bensì laico: chi osa leggerci dell’ateismo implicito, mostra di fallire il bersaglio. Laico, per una volta, significa universale: non tanto una liturgia di fede esplicita, quanto un’occasione di fede implicita, un’adunanza di uomini e donne dalla buona volontà. Le medesime alle quali si faranno postini gli angeli nella notte del Natale: «Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini che egli ama» (Lc 2,14). Uniti nel nome di una ragazza per dire che Dio non c’entra nulla col terrore goliardo dei tagliagole: che nessuno, a qualunque Dio appartenga, osi aggrapparsi a lui per vederci radicata l’origine del male, la bontà dello sterminio. Chi ci prova, anche solo col pensiero, abita già la terra della bestemmia più cupa.
Guardo il feretro di Valeria e m’inabisso negli occhi di tutta quella gente che s’è data appuntamento nella piazza, alla luce del sole: m’appare fra Cristoforo, nel mentre tenta di far ragionare invano don Rodrigo. Ne uscirà sconfitto, ma la sconfitta stranamente non lo distrugge. Il buon Manzoni racconta che «il padre Cristoforo arrivava nell’attitudine del buon capitano che, perduta senza sua colpa una battaglia importante, afflitto ma non scoraggito, sopra pensiero ma non sbalordito, di corsa e non in fuga, si porta dove il bisogno lo chiede» (A. Manzoni, I promessi sposi).
Contemplo il volto di Dario, il fratello di Valeria, di Andrea, il suo fidanzato, della mamma e del papà: non vi leggo circostanza, orme di rivalsa, tracce d’odio. Com’è possibile non essere sconfitti dentro una simile battaglia? Loro, come Cristoforo: gente che combatte senza sottovalutare, capace di andare dove la speranza lo chiede.
Valeria è tornata dentro un legno, cullata dalle onde di una città che, da sempre, è un porto di mare: gente che va, gente che viene, incrocio di sangui e di canali. E’ tornata a casa, le hanno fatto festa come di chi si attendeva da tempo per abbracciarsi. In tutti questi giorni, sotto casa di Valeria, il terrore ha capito d’aver sbagliato traiettoria. Forse non aveva calcolato che, tra tutti, c’è anche chi al male risponde con sofferta nobiltà d’animo: parole misurate, pacate, passate e trapassate come oro sul crogiolo. Certe morti sono per la vita: non azzannano del tutto, insegnano a vivere l’attesa, l’incertezza. La speranza è che domenica Barbara d’Urso si mostri donna d’intelletto e di cuore: se il suo programma è il salotto-della-zia, non metta mano in questa storia che da salotto-non-è. Lo dovrebbe a Valeria, alla vita.
Quella vera, che ammutolisce.