BRUXELLES — La sveglia suona all’alba per correre in aeroporto. È il già il quinto giorno di stato d’allerta quattro a Bruxelles. Etterbeek, dove abito, è a soli 15 minuti a piedi dalle principali istituzioni europee, ma in questi giorni è come se si trovasse al di là di quello spazio senza frontiere creato dalla nascita dell’Unione europea. Alle 6.45 ho appuntamento con il transfer per l’aeroporto organizzato da alcuni ragazzi sardi che, stufi di sopravvivere nella loro città natale, sono sbarcati a Bruxelles e sono diventati più puntuali e meno costosi dei taxisti belgi. Nei giorni scorsi ho pensato spesso di prendere il primo volo per tornare al sicuro in Italia, ma il volo di oggi è programmato da tempo. Non sto fuggendo da Bruxelles per paura di minacce terroristiche ma per partecipare alla Colletta Alimentare, l’appuntamento fisso dell’ultimo sabato di novembre. Esco di casa e la giornata si preannuncia grigia e glaciale. Il governo ha deciso di mantenere l’allerta quattro fino a lunedì prossimo ma oggi le scuole riaprono. Le linee della metro e i trasporti pubblici stanno tornando alla normalità. Le macchine riprendono a circolare e iniziano già a formarsi i primi ingorghi perché i belgi non sono molto smart al volante. Le scuole riaprono con i genitori tesi all’idea di lasciare i propri figli e 300 agenti della polizia mobilitati appositamente perché siano al sicuro. Tanti sono ancora a casa. Alcuni sono visibilmente scossi, magari non ne fanno parola ma non escono di casa per paura. Anche se le notizie su Bruxelles non sono più sulle prime pagine dei quotidiani e hanno lasciato il posto ad altro, qui la situazione è ancora irrisolta. Siamo sospesi tra assurdo e irreale, ad attendere che accada qualcosa.



Ma forse qualcosa è già accaduto. L’albero di Natale di 17 metri in Grand Place arrivato dalla Vallonia e addobbato nei giorni di maggiore tensione da alcuni operai vegliati dai militari. Il collega di lavoro che mi telefona e prima di riattaccare mi dice: “Stay safe! E vedrai che la normalità tornerà presto”. I numerosi messaggi ricevuti da amici sparsi nel mondo che mi hanno fatta sentire meno sola. I negozi che, a dispetto del governo, hanno deciso di rimanere aperti e con simpatia hanno esposto il cartello “Sorry, we’re open“. La copisteria all’angolo della via che ha occupato il marciapiede con un manifesto che cita Péguy: “Perché non amano nessuno, pensano di amare Dio”. E soprattutto una cena con gli amici di Bruxelles e la recita tutti insieme del rosario. Un gesto semplice, che richiama lo stare insieme dei primi cristiani e che ti fa sentire a casa. Un gesto che è arrivato quasi come un regalo inaspettato e che racchiude tutto il significato di un’amicizia.



In questi giorni c’è stata un’attesa e qualcosa è accaduto. Magari non è il qualcosa che mi aspettavo in risposta alla minaccia terroristica, ma non posso negare che qualcosa di altrettanto concreto sia accaduto. C’è ancora un po’ di paura ma è forte la certezza che qualcosa è accaduto. Parto per Milano con l’aspettativa di vivere la Colletta Alimentare sabato. Parto con l’attesa di tornare e riprendere la vita in questa città, una città forse ricca di contraddizioni e punti irrisolti ma dove allo stesso tempo tutti possiamo sentirci a casa.

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