L’abbattimento del jet russo da parte del governo di Ankara non solo ha fatto tenere il fiato sospeso alle principali cancellerie mondiali — per lo meno per alcune ore — ma ha soprattutto rivelato, senza mezzi termini, la politica di potenza dell’uomo indiscusso della Turchia contemporanea, il sultano Recep Tayyip Erdogan.
Parlare di Turchia vuole dire in primo luogo, infatti, parlare del leader che da più di 13 anni ne tiene fermamente le redini e delle mille contraddizioni di un uomo politico e della sua deriva autoritaria che nel giro di un decennio ha fatto sì che la Turchia passasse dal ruolo di “fianco sud della Nato” a quello di vera e propria scheggia impazzita del Medio Oriente. Una scheggia impazzita, però, che per la sua posizione geopolitica e per il ruolo “pivotale” che ricopre per lo scacchiere mediorientale è assurta al ruolo di “attore indispensabile” non solo per gli equilibri regionali ma, in più ampia prospettiva, per quelli internazionali e che, oggi più che mai, sembra ancora destinata a dettare le regole.
La deriva autoritaria di Ankara vede il suo momento di svolta nel 2013, anno delle rivolte di Gezi Park quando l’ira del sultano si scagliò, per molti inaspettatamente, contro i çapulcu, “vandali”, così chiamava Erdogan i giovani manifestanti di piazza Taksim, e che ha rivelato al mondo il vero volto di un paese ben lontano dall’immagine dell’eccezione felice nel fallimentare prisma comparativo delle rivolte arabe, ostentata per più di 10 anni dal presidente e dal suo entourage. Da allora, questo leader dall’ego smisurato ha virato sempre più verso la deriva di una dittatura islamica, fatta di arresti di massa di giornalisti e intellettuali, costanti violazioni delle più elementari regole democratiche, limitazioni arbitrarie alla libertà di stampa. Ecco svelato il “volto nuovo di Ankara”. E’ così il premier, che si era sforzato di convincere tutti che il suo “modello turco” potesse essere l’unico riferimento possibile per un mondo arabo in fiamme — perché capace di unire il rispetto delle prassi democratiche con i principi dell’islam e di dialogare con i vicini regionali attraverso la realpolitik della profondità strategica, tenendo al contempo aperta la porta europea — diventa il protagonista di una politica interna sempre più muscolare e di una politica estera “isterica” fatta di relazioni internazionali tese, altalenanti e a dir poco ambigue con molti degli attori internazionali.
Oggi, dopo la vittoria delle elezioni del primo novembre, l’uomo forte di Ankara, che si considera l’unico vero leader del mondo musulmano nel Levante, può finalmente tentare di realizzare il suo sogno “neo-ottomano” e gli effetti sono evidenti sia sul piano interno, sia su quello regionale e internazionale.
Dal punto di vista interno le conseguenze del “new deal” di Erdogan non sono tardate a farsi sentire. E’ notizia di pochi giorni fa l’arresto di Can Dündar e di Erdem Gül, rispettivamente direttore e caporedattore del quotidiano di sinistra Cumhuriyet, denunciati dallo stesso presidente per aver documentato presunte forniture di armi da parte dei servizi segreti turchi ai ribelli siriani. L’incarcerazione dei due giornalisti è solo la punta di un iceberg di una morsa sempre più stretta contro ogni voce dissidente. Negli ultimi mesi sono aumentati esponenzialmente i raid condotti dalla polizia turca in varie redazioni, gli arresti e le espulsioni di giornalisti di diverse testate nazionali o straniere. La Turchia è uno dei paesi al mondo con il più alto numero di giornalisti in carcere. Secondo il World Press Freedom Index 2015, è al 149° posto (su 180 paesi) nella classifica mondiale sulla libertà di stampa.
Ma è in politica estera che il disegno imperialista di Erdogan si fa più nitido e si riflette nei drammatici focolai di conflitto che interessano il quadrante mediorientale ed in particolare il dilaniato teatro siriano, in cui la politica di Ankara è stata fin dai primi tempi a dir poco ambigua, soprattutto per quel che riguarda i rapporti con il califfato islamico. Qui la leadership turca si è mossa — ad usare un eufemismo — con una certa fumosità, tra la necessità di rispondere agli appelli della comunità internazionale ad assumere una chiara posizione contro i boia dello stato islamico e lo spettro della possibile formazione di uno Stato curdo tra Turchia, Siria e Iraq.
La Turchia ha aderito alla coalizione contro l’Isis nel luglio di quest’anno, ma l’allineamento non gli ha certo impedito di continuare ad adottare la politica del double talk, bombardando, di fatto, più i curdi che gli islamisti. Secondo un report diffuso dall’Osservatorio siriano per i diritti umani la Turchia, nel primo mese di adesione alla coalizione, ha colpito 300 volte postazioni curde e tre volte quelle dello stato islamico. Come se non bastasse la Turchia non ha mai chiuso la frontiera con la Siria e tutte le attività politiche e militari di molti gruppi che operano in Siria, Isis incluso, sono state coordinate dalle province di Antakya e Gaziantep da cui entra, tra l’altro, il petrolio contrabbandato da Damasco. Tutto questo senza nessun appunto da parte degli “amici della coalizione” che pur di avere la geostrategica Turchia nel club degli alleati sono stati disposti a chiudere più di un occhio sulla partita truccata di Ankara.
E così Erdogan con una mano stringe quella di Obama aderendo alla coalizione anti-Isis, mentre con l’altra bombarda i ribelli curdi che combattono contro lo stato islamico, nel frattempo guarda con sfida Teheran per evitare che si creino le condizioni per un irredentismo curdo che potrebbe coinvolgere, oltre alla Turchia, la Siria, l’Iran e l’Iraq.
Come se non bastasse gioca una pericolosissima doppia partita con la Russia, mettendo sul piatto il mega-progetto del Turkish Stream, destinato a esportare il gas in Turchia e verso i mercati europei e poi, infastidito da bombardamenti russi troppo vicino al confine turco, le fa ingoiare il boccone più amaro, abbattendo, con dinamiche a dire il vero ancora poco chiare, il Sukhoi dell’aviazione di Mosca. Insomma per dirla con le parole dei due leader, se da un lato Erdogan ha “pugnalato alla schiena” Putin, quest’ultimo “ha giocato col fuoco”.
A questo punto viene spontaneo chiedersi: dove arriverà Erdogan o, meglio, fin dove gli sarà concesso di tracciare il proprio disegno egemonico? La risposta non va tanto cercata nelle ambizioni del leader maximo che, è evidente, sono oramai irrefrenabilmente proiettate verso aspirazioni di leadership del mondo musulmano del Levante, ma nel ruolo di contenimento dei possibili interlocutori internazionali e regionali.
Se è vero che la Russia non reagirà militarmente contro la Turchia, è altrettanto vero che ha a disposizione tutta una serie di strumenti indiretti, oltre all’embargo da poco annunciato, che potrebbero risultare molto indigesti per Ankara. In primo luogo Putin potrebbe far leva sulle forniture di gas, visto che il paese importa il 57% del proprio gas dalla Russia che rappresenta così il primo fornitore della Turchia (mentre il secondo è l’Iran, da cui importa il 20% di gas e con cui i rapporti non sono certo rosei). Questo non sarebbe certo un deterrente per il disegno di Erdogan, ma sicuramente potrebbe costituire quantomeno un freno. Non va dimenticato, poi, il ruolo degli altri attori invischiati nel risiko siriano, molti dei quali fin qui sempre piuttosto condiscendenti con il sultano. Se è vero che la Turchia, decidendo di entrare nella mischia siriana accanto alla coalizione spera di controllare direttamente la crescita del potere curdo, visto che la scommessa sull’Isis in chiave di contenimento dei curdi non è riuscita, è plausibile credere che qualora alcuni dei player della coalizione, che a vario titolo operano in territorio siriano, iniziassero ad armare seriamente i curdi dell’Ypg, considerati da Ankara una minaccia tanto quanto il Pkk, ad Erdogan potrebbe correre quanto meno almeno un brivido sulla schiena.
Ma quest’ultima ipotesi difficilmente potrebbe realizzarsi visto che, alla fine dei conti, la Turchia è un alleato comodo per molti. Lo è per gli Stati Uniti per i quali è un “riconquistato” alleato strategico di primo piano che, peraltro, ospita importanti basi militari americane; lo è per l’Europa per cui rappresenta un importante (seppur costoso) bacino di contenimento per i profughi e, infine, lo è per le monarchie sunnite del Golfo, che trovano in Erdogan un importante alleato per la politica di contenimento della mezzaluna sciita nell’area. Da questo punto di vista, per lo meno al momento, sembra che il sultano abbia dunque la strada (abbastanza) libera per la costruzione del proprio disegno egemonico nel Medio Oriente.