“L’Isis è presente non solo in Siria e Iraq, ma anche in Sinai, Libia, intero Nord Africa e Nigeria. Per battere il califfato sarà necessaria una lunga guerra su un arco composto da diversi fronti. E’ indispensabile che anche l’Italia faccia la sua parte”. E’ il commento di Gian Micalessin, inviato di guerra de Il Giornale, dopo che nei giorni scorsi la Russia ha intensificato i bombardamenti su Raqqa, capitale del califfato. Il presidente russo, Vladimir Putin, ha alzato i toni: “I missili Kalibr e i razzi da crociera A-101 possono essere armati sia con testate convenzionali sia con testate speciali, cioè quelle nucleari. Certamente nulla di questo è necessario nella lotta ai terroristi, e spero che non sarà mai necessario”.



L’intervento russo risponde a una propaganda per motivi interni o sta producendo risultati sul terreno?

Sicuramente l’intervento russo sta producendo risultati concreti sul terreno, anche perché l’intensità dei bombardamenti non ha precedenti rispetto a quelli che erano stati messi in atto dalla coalizione. Putin ha rotto l’assedio in cui si trovavano Damasco e Aleppo. Mentre è di mercoledì la notizia del ritiro dei ribelli dall’ultimo quartiere di Homs. Non dimentichiamoci che nelle settimane scorse si era parlato anche di un’offensiva verso Palmira.



Come vanno intanto le cose sul fronte “politico”?

I bombardamenti russi hanno incoraggiato gli americani ad agire con altrettanta determinazione, ma soprattutto hanno cambiato la “cornice” del conflitto. A Vienna si sta cercando una soluzione politica e diplomatica: non si dice più soltanto che l’unica soluzione per il dopo conflitto in Siria è l’addio di Bashar Assad, ma si cerca una soluzione mediata con la partecipazione dell’Iran, dell’Arabia Saudita e dello stesso regime siriano. Siamo davvero di fronte a una svolta.

Perché Putin minaccia il ricorso alle armi nucleari?



Non ho dubbi sul fatto che non ci sarà bisogno di usare le armi nucleari. Anzi la loro evocazione serve a fare capire che se Putin si ritirasse dalla Siria ci sarebbe il rischio di un conflitto atomico. Se l’Iran intervenisse per salvare Assad si troverebbe di fatto ai confini israeliani. A quel punto sì che ci sarebbe il rischio di una guerra nucleare.

Quanto è forte ancora l’Isis?

L’Isis è ancora forte. Prima di entrare seriamente in gioco al fianco di Putin, l’Occidente ha atteso oltre un anno e mezzo dopo la dichiarazione del califfato e tre anni dopo che l’Isis ha iniziato a operare in Siria nel 2012. Nel frattempo lo stato islamico si è armato, si è arricchito e ha attirato volontari da tutto il mondo. Si è così esteso su un raggio d’azione che oggi non permette di sconfiggerlo operando solo in Iraq e Siria. L’Isis è presente in Libia, Sinai, l’intero Nord Africa e la stessa Nigeria con Boko Haram. Sarà quindi necessaria una guerra lunga e su un arco composto da diversi fronti.

A proposito di Libia, qual è la strategia di Renzi?

Non lo sa ancora nessuno. Renzi ci racconta spesso che per fare una guerra c’è bisogno di un disegno politico: l’Italia dovrebbe esserne la protagonista. La settimana prossima a Roma si terrà una conferenza sulla Libia. Speriamo che l’Italia si presenti con un’idea chiara su che cosa fare e che non sia ancora una volta il disegno di qualcun altro come Francia e Regno Unito. Se prima di fare una guerra all’Isis in Libia serve un disegno politico, l’Italia è la prima a doverlo fare perché i nostri interessi nazionali sono quelli più a rischio.

Quale dovrebbe essere questo disegno per la Libia?

L’idea chiara da parte dell’Italia è innanzitutto capire chi sono i nostri alleati in Libia per individuare chi potrà combattere la guerra contro l’Isis. Si era iniziato a farlo, poi questo processo si è interrotto perché si è dato credito al disegno dell’inviato Onu, Bernardino Leon. Oggi per l’Italia la priorità è la ricerca di alleati sul terreno, cioè di fazioni e tribù libiche che siano pronte a schierarsi con noi.

 

L’Italia deve appoggiarsi a una parte o spingere tutte quante a negoziare?

E’ chiaro che se le due parti in causa fossero neutrali, il discorso sarebbe molto più semplice. Il problema è che non è affatto così. Il governo di Tripoli risponde ai dettami di Turchia e Qatar, quindi sostanzialmente di Paesi che appoggiano l’islam estremista. Il governo di Tobruk risponde invece agli interessi dell’Egitto. Noi dobbiamo sfruttare la nostra esperienza e il nostro ruolo in Libia per cercare di creare una posizione autonoma, che sia indipendente dagli interessi degli altri Paesi. Ma senza essere presenti non riusciremo mai a farlo.

 

L’Egitto può essere un buon alleato in Libia?

Con l’Egitto era stata sviluppata un’intesa, ma poi l’Italia si è chiamata fuori a metà partita. II Cairo a quel punto è andato avanti sulla sua strada curando soprattutto i suoi interessi. Al-Sisi resta comunque l’alleato che dà più garanzie, perché è sicuramente contrario all’Isis. Mentre dall’altra parte abbiamo una coalizione islamista succube delle politiche di Turchia e Qatar, e al cui interno sono presenti ex membri di Al Qaeda che hanno combattuto in Libia contro Gheddafi.

 

(Pietro Vernizzi)