Il 16 dicembre i Parlamenti di Tripoli e Tobruk firmeranno uno storico accordo di pace patrocinato dall’Onu. A rivelarlo è stato Martin Kobler, inviato di Ban Ki-Moon in Libia. Il tutto tre giorni dopo l’avvio della Conferenza Internazionale sulla Libia prevista per il 13 dicembre a Roma. Il ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, ha spiegato che “l’obiettivo è ottenere il più alto livello di consenso possibile sul governo di unità nazionale negoziato sotto l’egida dell’Onu”. Ne abbiamo parlato con Abdel Fattah Hasan, professore del dipartimento di Italianistica di Misurata in Libia dove si trova da tre anni.
Il 16 dicembre Tobruk e Tripoli firmeranno l’accordo. E’ la volta buona o è solo una messinscena?
L’accordo è stato firmato da due blocchi politici di peso all’interno dei rispettivi parlamenti. Dopo essersi resi conto della parzialità di Bernardino Léon, le due parti hanno deciso di incontrarsi faccia a faccia. Léon si riuniva invece prima con una parte e poi con l’altra. A un certo punto i libici hanno deciso di fare da sé, raggiungendo un accordo vero e proprio. Le due parti hanno identificato dei criteri comuni e un punto d’incontro tra di loro.
Tra poco a Roma si aprirà la Conferenza internazionale sulla Libia. Che cosa occorre fare perché non siano solo parole?
Il primo dovere è rispettare il sacrificio del popolo libico. Un gran numero di persone qui sono morte perché volevano vivere libere. Il generale Haftar oggi vorrebbe far rivivere il regime totalitario di Gheddafi, eppure i libici non lo accetteranno mai. Una soluzione autentica di questa crisi deve rispettare le ambizioni del popolo libico, che ha compiuto una rivoluzione per liberarsi dalla tirannia. E’ fondamentale inoltre che l’Occidente sia equidistante rispetto ai due governi di Tobruk e Tripoli, per favorire un’autentica riconciliazione.
Di chi si deve fidare e di chi no l’Italia in Libia?
L’Italia deve fidarsi solo di chi non prepara la controrivoluzione. Chiunque sostenga la rinascita del regime totalitario di Gheddafi va escluso dalla scena. Mentre è possibile dialogare con chiunque rispetti i sacrifici e le ambizioni del popolo libico, che mira a vivere in modo dignitoso. Ma se l’Italia darà credito a persone che guidano la controrivoluzione e vogliono fare tornare la tirannia di Gheddafi, non si arriverà mai a una soluzione decisiva della crisi libica.
Il governo di Tripoli è stato accusato di ambiguità nei confronti dell’Isis. Condivide questa accusa?
No, il governo di Tripoli ha combattuto l’Isis inviando diversi soldati. Ho visto con gli occhi dei funerali dei martiri caduti nel combattimento contro Isis a Sirte. Anche diversi studenti della mia università hanno lasciato gli studi per combattere contro il califfato. Del resto l’Isis in Libia è rappresentata soltanto da una manciata di militanti. Se la comunità internazionale rispetterà le richieste del popolo libico, questo sarà il mezzo più efficace per combattere il fanatismo.
Chi sostiene e finanzia l’Isis in Libia?
Ahmed Ghaddaf Al-Dam, cugino di Gheddafi, è apparso in un video lodando i giovani dell’Isis a Sirte e dicendo che sono delle ottime persone. Basta questo per capire chi finanzi e invii armi sofisticate all’Isis. Sirte del resto è una città che non rappresenta affatto la società libica, anche se è dove è nato Gheddafi. Anziché di Daesh, sarebbe forse più corretto parlare di gheddafiani.
Quale ruolo hanno i Fratelli musulmani nel governo di Tripoli?
Nessun ruolo. Esiste un partito dei Fratelli musulmani libici che si batte per la riconciliazione nazionale. Ma non esercita alcun influsso né sul governo di Tripoli, né su qualsiasi decisione ufficiale della Libia.
Lei è a Misurata da tre anni. Come si vive in città?
Nel dipartimento di italianistica dell’università si stanno tenendo regolarmente gli esami, i giardini pubblici sono pieni di bambini che giocano con i genitori e la gente affolla supermercati e moschee. La vita a Misurata quindi è normalissima, la città è pacifica e ci vivono numerosi stranieri con le famiglie, persone provenienti da tutti i Paesi del mondo. Qui siamo sicuri perché la roccaforte dell’Isis, Sirte, si trova a 250 chilometri. Fuori dalla città ci sono blocchi di sicurezza, ma al suo interno tutto è tranquillo.
(Pietro Vernizzi)