Con un ritardo di almeno quattro anni la comunità internazionale sembra finalmente decisa a tentare di ricomporre i cocci della Libia fatta in mille pezzi.

Sono trascorsi più di quattro anni, infatti, da quando, nel marzo del 2011, le forze della coalizione, seguendo i desiderata francesi dell’allora premier Sarkozy, decisero di intervenire militarmente in Libia a supporto delle milizie dei ribelli anti-regime, milizie che, già allora, erano composte da un magma di fazioni in cui si faceva fatica a discernere “il buono dal cattivo”. In questi 4 anni la Libia ha virato sempre più verso la deriva di uno Stato fallito. Un fallimento che, certamente, ha le sue radici nel passato e nelle pesanti responsabilità del regime orwelliano ed “egocentrico” di Gheddafi — che aveva fatto deliberatamente dello “scatolone di sabbia” una Jamahiriyya senza istituzioni, senza partiti, senza elezioni e con il sistematico annichilimento di ogni forma di libertà e di dissenso politico —; ma che ha trovato nuova linfa proprio con l’intervento esterno, quando ai player internazionali, impegnati nel conflitto libico, sembrò sfuggire l’evidenza che armare gruppi locali per raggiungere un obiettivo a breve termine avrebbe rischiato di avere come diretto corollario il caos interno.  



Nel tempo quelle fazioni, lungi dal deporre le armi — così come chiesto prima dal neo-formato Consiglio nazionale di transizione e poi da Mahmoud Jibril, leader del partito laico uscito vincitore dalle prime vere elezioni del paese nel luglio 2012 — hanno virato sempre più verso una politica muscolare, accaparrandosi porzioni di territorio che, a tutt’oggi, sono sotto il loro controllo. E così — solo per fare i nomi più noti — le milizie islamiche di Fajr Libya, vicine al governo di Tripoli, hanno cacciato dalla capitale le milizie di Zintan vicine al governo di Tobruk; le brigate di Anshar al-Sharia di fatto controllano Bengasi e Sirte, dove si spartiscono la torta con le milizie del califfato, e così via. 



Ad aggiungere benzina sul fuoco, poi, le rivalità tra le fazioni laiche ed i gruppi islamisti, accese già nel dopo-elezioni, hanno portato ad una progressiva polarizzazione di queste due anime del paese che, facendo perno sulle milizie rispettivamente affiliate, hanno creato un’escalation di violenze e scontri culminati nell’esilio del governo a Tobruk e nella formazione del parlamento di Tripoli.

Infine, nel caos così delineato, sono entrate le milizie del califfato che, dalla scorsa estate, controllano — grazie anche all’affiliazione di alcune bande locali, che hanno giurato fedeltà ad al-Baghadi, come ad esempio la brigata Rafallah Sahati o il gruppo Majlis Shura Shabab al-Islam (Consiglio della Shura dei giovani islamici) — alcune città del paese, tra cui Sirte, e che oggi minacciano, a dire il vero più con un’abile propaganda mediatica che con atti concreti, di “invadere la Libia”.



Ecco, in poche parole, come la Libia “liberata” è diventata in breve tempo un buco nero nella mappa del Nord Africa. 

Nonostante la deriva del paese fosse oramai chiara a tutti, la Libia è assurta a questione prioritaria nelle agende delle cancellerie internazionali solo negli ultimi caotici giorni, dopo mesi di stallo in cui si è preferito lasciare in mano al debole (per usare un eufemismo) Bernardino Léon la gestione di una situazione che, evidentemente, non è mai stato in grado di controllare davvero. Le cause di questo strano “risveglio” sono diverse e non prettamente riconducibili a una, seppur tardiva, presa di coscienza della necessità di portare un po’ di ordine nel failed State. Le motivazioni, in realtà, sono di ordine più “pragmatico”, dettate, se così vogliamo dire, da calcoli geostrategici e dalla vecchia logica della realpolitik. 

In primo luogo il timore che alcuni attori regionali (vedi la Turchia vicina a Tripoli e l’Egitto vicino a Tobruk e soprattutto ad Haftar, solo per citare alcuni esempi) potessero approfittare del caos interno per poggiare i propri “stivali” nell’area, ha fatto correre almeno un brivido lungo la schiena a molte delle potenze internazionali impegnate nella vicina Siria. In secondo luogo, poi, l’azione della coalizione in Siria e Iraq sarebbe stata “monca” senza l’inclusione del tassello libico, una fetta “golosa” della grande torta levantina e nordafricana su cui vorrebbero mettere le mani molte potenze regionali e internazionali.

In questo ennesimo, grande caos prende vita l’ambiziosa road map per la ricostruzione della Libia discussa e siglata il 13 dicembre a Roma e che ha poi visto nella firma dell’accordo per un governo di unità nazionale tra rappresentanti dei due governi di Tripoli e Tobruk dello scorso giovedì a Skhirat, in Marocco, un ulteriore passo in avanti. Uno step necessario per un intervento della coalizione — che oramai pare inevitabile — ma non sufficiente per poter dire che in Libia potrebbe tornare a brillare almeno uno spiraglio di luce tra le macerie delle città contese. 

Le criticità sono molte a partire dall’ormai nota questione della scarsa rappresentatività dei due governi che, è sempre più evidente, sono solo due attori all’interno di un frammentato risiko di altri protagonisti e altre comparse che si muovono in uno scenario di equilibri estremamente mutevoli e magmatici. Potrebbe, anzi, esserci il rischio che alcuni gruppi, come ad esempio Fajr Libya, che si sono mostrati a volte allineati con il governo di Tripoli, non accetteranno senza colpo ferire un accordo con il nemico giurato di Tobruk. Molte di queste fazioni, addirittura, potrebbero disconoscere il vecchio alleato per abbracciare, magari, posizioni più estremistiche. 

Resta poi ancora aperta la spinosa questione del generale Haftar. Molte delle milizie finora fedeli a Tripoli vorrebbero la testa di Haftar e dei suoi generali su un piatto d’argento, inorridendo alla sola idea di un suo qualunque ruolo nel nuovo futuro governo tripolino, mentre una buona parte dell’area di Tobruk (nonché dei suoi alleati internazionali, al-Sisi in primis) lo considera un leader oramai indispensabile. Da questi presupposti sarà davvero possibile procedere alla creazione di un vero (e soprattutto legittimato) governo di unità nazionale entro 40 giorni? 

Se da un punto di vista interno la situazione è quantomeno caotica, non va meglio sul piano internazionale in cui permangono tanti dubbi legati a questa strana “alleanza di Roma”. Il piano siglato il 13 dicembre vede, infatti, la firma di vari attori (tra cui Russia, Egitto, Turchia, Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita, etc.) che in questo momento non vanno proprio d’amore e d’accordo e che hanno dimostrato, già nella crisi siriana, le proprie divergenze di vedute. Ora, se è vero che, al momento, sembra prevalso il buon senso, o per meglio dire la realpolitik del minimo comune denominatore, chi può garantire che l’Egitto di al-Sisi, fin qui il burattinaio che ha mosso i fili della Libia di Haftar (assieme alla Russia e ad altri petrolmonarchi del Golfo) e la Turchia del Sultano, da tempo sponsor di Tripoli, mettano da parte le vecchie incomprensioni in nome della stabilità della Libia e della lotta al califfato, che peraltro molte delle potenze firmatarie hanno spesso sostenuto più o meno direttamente in Siria?

Insomma, il percorso di questo anelato “nuovo state building libico” (che forse dovrebbe essere preceduto da un processo di nation building) appare lungo e irto di ostacoli. Se davvero, come sembra, l’Italia, troppo spesso considerata “il ventre molle d’Europa”, vorrà prendersi la sua rivincita ed avere un ruolo di player primario in questa coalizione, non tanto per orgoglio nazionale quanto soprattutto per difendere i propri interessi economici e di sicurezza interna legati alla sponda libica, quella che si troverà davanti, più che una sfida, appare quasi una “mission impossible”.