Ironia o astuzia della ragione nella storia?Il 30 agosto 1954 l’Assemblea nazionale francese respingeva l’adozione del Trattato che avrebbe – sulla falsariga della Cee, ma più lucidamente collegandovi istituzioni politiche parafederali con il trattato sulla Comunità politica europea (Cpe) già elaborato – istituito una Comunità europea di difesa. Nei giorni scorsi una Francia sotto attacco, la stessa che contribuì decisivamente ad affondare nel referendum del 2005 il progetto più avanzato d’integrazione europea anche nell’ambito della Pesc (Politica estera e di sicurezza comune), ha invocato la clausola 42.7 del trattato di Lisbona chiedendo e ottenendo all’unanimità l’aiuto militare degli altri paesi membri. 



Non era l’unica strada. Poteva essere invocato l’art. 222 del Trattato sul funzionamento dell’Unione che prevede l’intervento diretto con missioni militari dell’Ue in caso di attacco terroristico al territorio di uno stato membro o l’art. 5 del Patto Atlantico in forza del quale un attacco armato contro una o più nazioni, in Europa o nell’America settentrionale, è considerato come un attacco coordinato a tutti i paesi stipulanti il trattato. Peraltro, nel 1999, il “Nuovo concetto strategico della Nato” specificava che “attacco armato” erano da considerarsi anche gli “atti di terrorismo, di sabotaggio e di crimine organizzato…”. Dunque la Francia ha scelto, certamente ponderando tra le varie opzioni, la detta clausola 42.7 collocata all’interno della sezione del Trattato Ue dedicato alla politica di sicurezza e difesa comune.  In altri termini, la Francia aggredita, la prima porta a cui ha bussato non è stata quella della Nato ma a quella europea e proprio a quella porta che nel tempo ha tanto contribuito a rendere inconsistente. Sin dal varo dell’ossimoro dell’Europa delle nazioni di De Gaulle.



Un caso di scuola quello della difesa di come nonostante le possenti forze centrifughe in azione e il rafforzamento politico di radicate culture isolazioniste le spinte di matrice inversa sono formidabili. L’Unione ha oggi nel suo complesso la spesa militare più alta nel mondo dopo quella degli Stati Uniti. A tale enorme sforzo finanziario non corrisponde però medesimo posizionamento tra le potenze militari, piuttosto questo è noto tradursi nella sostanziale irrilevanza nello scacchiere globale. Ventotto eserciti sovrapponenti medesime funzioni sono un paradigma d’inefficienza e allocazione sub-ottimale delle risorse. Si legge, ad esempio, in un una “nota strategica” del giugno 2015 dell’Epsc, European political strategy centre, il think tank “in-house” della Commissione europea di cui dà notizia un recente articolo de Il Sole 24 Ore di Giuseppe Chiellino, che gli Stati europei dispongono di poco più di 17mila carri armati di ben 37 tipi diversi, mentre gli Usa ne anno 27.500 ma solo di nove modelli. La babele dei 28 eserciti, impegnati in un fascio di cooperazioni bi o multilaterali, si avvale poi di 154 sistemi di arma diversi contro 27 degli Stati Uniti. E si potrebbe continuare.



Quel che è certo è che grazie solo alle economie di scala sulle spese militari (nel 2013 l’84% degli acquisti veniva fatto a livello nazionale) si potrebbero non solo risparmiare decine e decine di miliardi degli smunti bilanci nazionali, ma riuscire a contrastare una deriva pericolosissima che le pressanti esigenze di forte contenimento delle spese nel comparto difesa sta generando. Da una parte l’obsolescenza di molte tecnologie d’arma, dall’altra giudizi come quello del report citato, di imbarazzante inadeguatezza dei sistemi di sicurezza europea al mutato scenario internazionale. In un mondo senza più punti cardinali, tra il 2005 e il 2014 gli investimenti in armi ed eserciti sono cresciuti del 97% in Russia, del 167% in Cina, del 112% in Arabia Saudita, del 39% in India. Nell’Ue, nello stesso periodo, la lunga crisi ha portato a tagliare la spesa militare del 9%, mentre dal 2006 gli investimenti in R&S sono crollati del 30%. Solo Cameron ha annunciato di voler aumentare di circa 17 miliardi il budget della difesa nei prossimi cinque anni.

È perfino banale allora dedurre da quanto scritto che un esercito europeo non è un opzione, ma una necessità. Come ha il sapore dell’ovvietà constatare che non serve un esercito comune senza una politica estera europea, oggi acefala (o multicefala che fa lo stesso) e insignificante nel mondo. O che se non ci si vuole limitare a una terapia meramente sintomatica contro il cancro Isis occorre una soluzione in Siria, militare e politica, in uno scenario dannatamente complesso che nessuno Stato europeo può lontanamente provare a determinare da solo. E non è forse altrettanto lapalissiano che senza un intelligence europea siamo tutti più vulnerabili? Per usare le parole di Guy Verhofstadt al Parlamento europeo, il terrorismo non ha frontiere e non può averlo neanche il suo contrasto. Nella notte tra il 13 e il 14 novembre, Salah Abdeslam, ottavo componente del commando di morte di Parigi, conosciuto alle autorità belghe, viene fermato sull’autostrada che collega Parigi a Bruxelles, ma la polizia francese – che aveva accesso al casellario giudiziario belga grazie al sistema di condivisione delle informazioni di Schengen (Sis) ma non alle informazioni di intelligence – non l’ha arrestato.

Tutto ovvio. Tutto facile. Tutto evidente. Ma perché allora ci muoviamo nella direzione opposta? Paradossalmente, nelle prime analisi sulla stampa internazionale sugli effetti di quanto è successo a Parigi, si dà per scontato un ulteriore ripiego dell’opinione pubblica su posizioni autarchiche e nazionaliste a cui illusoriamente chiedere sicurezza. La Le Pen viene ad esempio data in vantaggio in Francia alle prossime presidenziali. E dappertutto in Europa è noto non spirino venti di particolare empatia con l’approfondimento dell’Unione e la devoluzione di poteri al centro. La vittoria di movimenti euro-scettici coincide poi con la vittoria di partiti poco inclini alle riforme strutturali nei singoli paesi – per definizione poco apprezzate dai partiti populisti -, conditio sine qua non al progredire del processo d’integrazione in una spirale che tenderà ad autoalimentarsi. Eppure l’Europa avrebbe ottimi argomenti per contrastare tali derive. Il problema è che non ci prova neanche. Non è capace di spiegare alla gente le sue ottime ragioni, di spiegare dove si vuole andare e perché. Non ha uno story telling positivo da contrapporre alla disgregazione. Alla sua nascita l’aveva, quanto meno quello della promessa mantenuta di una pace tra i popoli europei di cui non si aveva memoria e di benessere. Oggi avrebbe ancora delle tesi robuste da svolgere, ma non ha narratori ne divulgatori. Neanche politici, se si escludono le vuote giaculatorie. 

Eppure, non vi è solo la logica e il buon senso al suo fianco. Quello che spingerebbe a far fare a un’ipotetica federazione ciò che gli Stati non possono fare o non possono fare in modo efficace con beneficio di tutti (la difesa, la politica estera, il controllo delle frontiere e dell’immigrazione secondo il modello del Department of Homeland Security statunitense, la creazione delle grandi reti infrastrutturali europee, la politica energetica, ecc.). I fatti di Parigi ci dicono di più: che senza Europa la nostra civiltà è a rischio. 

All’alba della strage del Bataclan Adriana Cerretelli scriveva su Il Sole 24 Ore: “Conforta e scalda il cuore nella Parigi della carneficina sentire la gente intonare la Marsigliese, cantarla a squarciagola per gridare la propria identità nazionale, una storia rivoluzionaria e libertaria da opporre all’oscurantismo medioevale degli idolatri dell’Apocalisse, di teste mozzate, sharia, donne schiavizzate e ignoranza eletta a politica sociale”. Quella storia, quell’identità, in realtà non è solo francese, ma è europea. Quando sono in giro per il mondo non è la pasta o la moda che mi distingue da un cinese, russo, africano, indiano e perfino da un americano. È la mia profonda cultura europea, la mia storia. Quello che se non cominceremo a difendere, nell’unico modo plausibile, verrà spazzato via nel secolo che verrà.

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