Per la stampa europea è ormai “il sultano”. Ha abbattuto un jet militare di Mosca. E’ accusato di fare affari con lo stato islamico. Sta re-islamizzando la Turchia. Ha aperto ai profughi la via balcanica verso l’Europa. Nel 2014 ha accolto papa Francesco, ma pochi mesi dopo lo ha ammonito a “non fare più quell’errore” sulla questione armena (cioè chiamarla genocidio). Si dice che voglia costruire un nuovo “impero”. In occidente però, chi sia e cosa voglia davvero Recep Tayyip Erdogan non è ancora chiaro. Ne abbiamo parlato con Nihal Batdal, osservatrice turca, esperta di problemi mediorientali.
Erdogan è una figura sempre più controversa. Può essere accostato a Mustafa Kemal? Come il primo, identifica se stesso con il paese. I conti però non tornano, perché Atatürk era fautore di un nazionalismo a forte impronta laica, mentre Erdogan viene accusato di volere una re-islamizzazione del paese.
Ho visto che sulla stampa si cercano spesso le somiglianze e le differenze tra Atatürk e Erdogan, ma secondo me non viene sottolineata la differenza più importante. Diversamente da Atatürk e dalla sua politica, dal 2002, cioè da quando è al potere, Erdogan non ha quasi mai avuto un solo motto (quello dell’Akp è “una nazione, una bandiera, una terra, uno stato”, ndr) né nazionalista né islamico.
Ma allora è o non è in atto una islamizzazione della Turchia, come si dice attualmente in Italia?
L’islam è ovviamente al centro del discorso di Erdogan, però l’aver dato via libera alla costruzione di una chiesa cristiana, come pure l’aver ricevuto il Papa (fine novembre 2014, ndr) sono mosse meno islamiche e più laiche. Non da ultimo, le trattative con Ocalan per un eventuale cessate il fuoco tra il governo e il Pkk sono state criticate pesantemente dall’ala nazionalista. Però, quando il Papa ha usato la parola “genocidio” a proposito degli armeni, sappiamo benissimo qual è stata la reazione di Erdogan. Infine dopo le elezioni del giugno 2015 la sua disponibilità al dialogo con i curdi è terminata e ha cominciato a bombardare le basi del Pkk. Quella di Erdogan è innanzitutto una politica mutevole.
Ma quali sono i principi che ne orientano le decisioni?
Essenzialmente uno, raccogliere più voti possibili. Per capirlo occorre tornare al referendum del 2010, quello che puntava a modificare la costituzione antidemocratica del 12 settembre 1980 (data del colpo di stato militare, ndr). Credo sia molto importante concentrare l’attenzione sul movimento politico “Non basta ma sì” (Yetmez ama evet), a cui avevano aderito tanti intellettuali anche di sinistra, artisti, scrittori, per sostenere il cambiamento costituzionale promesso da Erdogan. Con il sì al referendum, Erdogan garantiva più libertà ai curdi, alle minoranze religiose, descriveva un paese più aperto, come tanti desideravano da un bel po’ di tempo.
E poi cos’è cambiato?
Poi arrivò il motto “Zero problemi con i vicini di casa”. Venne fuori nel 2010 grazie anche al ruolo accademico del ministro degli Esteri dell’epoca, Ahmet Davutoglu (attualmente primo ministro, ndr). Prima di fare politica attiva, nel 2001 Davutoglu pubblicò un libro, intitolato Stratejik Derinlik: Türkiye’nin Uluslararasi Konumu, ovvero “La strategia profonda: La nuova posizione internazionale della Turchia”, dove analizzava il nostro ruolo dopo la guerra fredda dimostrando, a suo modo di vedere, le relazioni della Turchia con l’eredità ottomana. Di fatto, era un nuovo programma.
Vada avanti.
Dopo l’episodio del “one minute” a Davos contro Shimon Peres (a Davos, nel gennaio 2009, Erdogan criticò Peres in conferenza stampa per i morti causati nell’offensiva su Gaza; Peres rispose, Erdogan volle controbattere e chiese al moderatore, l’editorialista del Whashington Post David Ignatius, “un minuto solo”, ma Ignatius non lo concesse perché gli ospiti del summit dovevano andare a cena. Erdogan, al suo ritorno, venne accolto come un eroe all’aeroporto di Istanbul, ndr), Erdogan intuì che un’altra prospettiva politica era possibile, e che era in gioco un ruolo diverso per la Turchia in Medio oriente.
Da cui l’idea di fare della Turchia il suo nuovo centro?
Sì. Questa sua promessa cominciò a venire sempre di più esaltata non solo tra i conservatori, ma tra tutti coloro che cercavano per il paese un destino diverso da quello rappresentato dal modello occidentale. In effetti, tutta la storia moderna turca è fatta di questa ambiguità tra voler — o dover — essere occidentale ed essere orientale.
Ma che cos’è l’Europa per la Turchia? Un’idea, una realtà, un’aspirazione?
Non saprei dare una risposta esauriente a questa domanda, viste le contraddizioni che definiscono il nostro paese. Dopo la riforma della repubblica di inizio ‘900, cioè l’occidentalizzazione del paese, l’Europa è stata per alcuni la culla della civiltà con cui bisogna identificarsi, mentre altri vi hanno visto soltanto un pericolo da cui proteggersi. E’ un tema complesso, perché vista da Istanbul l’Europa non è soltanto quella dei trattati che ne segnano la storia dal dopoguerra. Il modello europeo diventa essenziale per i princìpi della repubblica molto prima della riunificazione, come nel caso dell’adozione del codice civile svizzero e del codice penale italiano nel 1926.
E qual è invece l’oriente che attira la Turchia?
Ovviamente l’ideale di una potenza come l’Impero ottomano. Un modello dove si può realizzare la sintesi turco-islamica nella quale l’islam diventa la forza unificante della nazione.
Torniamo a Erdogan. Sembra di capire, da quello che lei dice, che non abbia avuto una sola linea politica, anzi che sia risultato ondivago.
Erdogan ha saputo conquistare non solo la maggioranza turca ma anche il cuore dei media occidentali esattamente in questo modo. Prendiamo il caso del suo cosiddetto neo-ottomanesimo. Erdogan si era già espresso chiaramente in questo senso, ma in Occidente non si parlava delle sue aspirazioni neo-ottomane perché lo si considerava, grazie al suo sostegno ai curdi in Turchia, un politico liberale dal punto di vista economico, un leader “moderato”. Ecco, direi che questo era l’aggettivo migliore che lo descriveva in Occidente, un uomo islamico ma moderato.
Ma nella realtà esiste questa “moderazione” o è un costrutto occidentale? Per esempio da noi si definisce l’Akp come un “partito islamico moderato”. E’ così?
Che l’Akp sia un partito moderato, a mio parere, è quello che si è voluto credere sia in Turchia che in Occidente.
E adesso?
Adesso in Turchia alcuni intellettuali che hanno sostenuto Erdogan dicendo “Non basta ma sì”, dicono di essere stati ingannati. La rivista Express, prevalentemente di sinistra, ha pubblicato una lettera di scuse aperta alle firme di chi voleva farlo; Adalet Agaoglu, una delle scrittrici più importanti della letteratura turca, ha detto in un’intervista che il movimento “Yetmez ama evet” era stato solo una delusione. La stessa cosa, quella di gridare al tradimento, che fanno ora i media occidentali.
Quindi?
Quindi, se Erdogan ha ottenuto tutto questo successo, a mio parere, è grazie soltanto alla sua politica volutamente mutevole. L’avere un motto diverso per ogni categoria sociale e il cambiare rotta ogni giorno per guadagnare il sostegno di tutti, gli ha procurato l’appoggio anche di coloro dei quali in partenza nemmeno lui ipotizzava il favore.
Per esempio?
L’ala sinistra della politica turca, oppure gli artisti e gli intellettuali che volevano vedere la modifica della costituzione del 1980.
Però a lungo andare le contraddizioni sono emerse.
Le cose sono cambiate dopo le proteste di Gezi Park. Il suo linguaggio è diventato sempre più divisivo, ha rotto con il movimento di Fethullah Gülen, poi è venuto il 17 dicembre, l’inchiesta per corruzione che ha portato all’arresto dei figli dei ministri dell’Economia, dell’Interno e dell’Ambiente, nonché dell’amministratore delegato di Turkiye Halk Bankasi AS (Banca Popolare, ndr), l’imprenditore Ali Agaoglu, con le accuse di riciclaggio di denaro sporco e corruzione nelle gare d’appalto del governo.
Cosa può dire della rottura tra Erdogan e Gülen?
La rottura fra Gülen e Erdogan diventò netta nel dicembre 2013, quando un’indagine della procura di Istanbul portò all’arresto per corruzione e tangenti di esponenti dell’Akp. Il procuratore, Zekeriya Öz, è un importante membro di Hizmet, ovvero il movimento di Gülen.
Ha suscitato scalpore l’idea di far tornare Santa Sofia ad essere una moschea.
Una mossa per esaltare l’orgoglio dei conservatori, che ora rappresentano quasi il 49 per cento del paese. La realtà è che Erdogan sarebbe disposto a fare anche il contrario, a trasformare cioè una moschea in una chiesa, se sapesse che questo gli frutta l’appoggio della maggioranza, permettendogli di consolidare il potere.
Un perfetto populista. Erdogan andrà avanti per questa strada?
Adesso le cose sono diverse, perché il nuovo ruolo voluto da Erdogan per la Turchia ha creato un nocciolo duro che lo sosterrà ad ogni costo, nel bene o nel male. Quindi i suoi discorsi, secondo me, d’ora in poi serviranno solo ad accontentare questa percentuale.
Angela Merkel ha trattato da sola con Erdogan il contenimento dei profughi in cambio della riapertura dei negoziati Ue-Turchia per l’adesione. Questo ci induce a riesaminare tutto quanto è accaduto nel settembre scorso, con l’apertura della cosiddetta “via balcanica” all’Europa. E’ stato un ricatto di Erdogan?
Risponderei a questa domanda con un recente tweet, che ho letto per caso, di Burhan Kuzu, uno dei fondatori dell’Akp e professore di diritto costituzionale nonché consigliere del presidente della Repubblica, sui finanziamenti dell’Europa per i rifugiati siriani: AB, Nihayet Türkiye’nin restini anladi ve kesenin agzini açti. Ne demistik? “Siniri açar tüm Suriyeli mültecileri üzerinize salariz”. Ovvero: “l’Unione Europea finalmente sta al nostro gioco e ha cominciato a mostrare i soldi. Cosa avevamo detto? Apriamo il confine e mandiamo da voi tutti i rifugiati!”.
Perché Erdogan vuole entrare in Europa?
Non credo che Erdogan voglia realmente entrare in Europa, né credo nella volontà dell’Europa. Si sono fatte promesse soltanto per risolvere la questione dei rifugiati.
Lei cosa ne pensa della scelta tedesca?
Vedo purtroppo un’Europa, Germania in testa, ispirata da tutto meno che dai diritti umani e disposta a risolvere tutto solo con i soldi. La Turchia sicuramente non sta attraversando il periodo più democratico della sua storia, perciò cominciare a parlare di trattative per l’adesione proprio ora è solo un modo per liberarsi del problema, come se questi rifugiati fossero delle merci invece di uomini che pagano le conseguenze di una guerra voluta e creata.
(Federico Ferraù)