E’ di pochi giorni fa l’annuncio dell’ambasciata italiana a Tripoli che ha invitato i nostri connazionali ad abbandonare “temporaneamente” il Paese (ieri è cominciato il rimpatrio, a bordo di una nave scortata dalla Marina militare). Ma il vero timore che ha messo in allerta anche il governo Renzi è che a rischiare non sono soltanto gli italiani che vivono in Libia. Sirte, ora in parte sotto il controllo dello stato islamico, dista solo 450 chilometri dalle coste siciliane e, secondo dichiarazioni apparse on line, i jihadisti non avrebbero alcun problema nel far arrivare una manciata di missili Scud in territorio italiano. Il ferale annuncio di guerra si fa ancora più realistico se si pensa che, secondo l’ex premier libico Ali Zeidan, la fascia costiera del Paese africano potrebbe in breve tempo essere completamente in mano alle milizie della jihad.
L’Italia, questa volta, è al centro del mirino tanto che il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni ha dichiarato che “il nostro paese è pronto a combattere in Libia nel quadro della legalità internazionale”. Si fa sempre più lontana e anacronistica dunque la speranza delle Nazioni Unite di sostenere una mediazione tra le diverse forze che dopo la caduta di Gheddafi hanno preso piede nel paese, mentre si fa sempre più concreta la necessità “di dover fare qualcosa di più”. Un “qualcosa di più” che, anche da un punto di vista diplomatico, forse avrebbe già dovuto essere stato fatto, proprio per evitare che la situazione degenerasse fino a questo punto.
Giova ricordare, infatti, che, dopo la caduta di Gheddafi, la drammatica situazione in Libia è stata spesso sottovalutata e liquidata come “il caos libico”, uno Stato-non Stato, diviso tra bande di miliziani — si parla ancora di circa 130mila combattenti — che mai hanno riconosciuto la legittimità del governo eletto. La profezia del Colonnello sembra essersi tristemente avverata e dal quel lontano ottobre 2011, quando il rais è stato catturato e ucciso, centinaia di milizie hanno riempito i loro arsenali, facendo razzia di tutti i depositi di armi dell’ex regime, in barba agli appelli al disarmo del parlamento post-rivoluzionario.
D’altra parte, in un paese governato per ben 42 anni da un regime orwelliano come quello del Colonnello, senza partiti politici e istituzioni, aspettarsi una “transizione democratica” pacifica sarebbe stato quanto meno utopico. Così come sarebbe stato ingenuo credere che nel puzzle libico, formato da una miriade di tribù per lo più armate, sarebbe stato possibile, senza il supporto concreto della comunità internazionale, dare vita ad un reale processo di nation building per tentare di creare, da zero, una nazione con spirito unitario.
Il già complesso contesto libico si è poi ulteriormente aggravato dalla scorsa estate da quando, dopo le elezioni del giugno 2014, il paese risulta diviso tra due parlamenti e due governi che, però, in realtà godono di una scarsissima legittimità, limitandosi al controllo di parziali zone del territorio. Da un lato il governo laico formatosi a seguito delle ultime elezioni, riconosciuto dalla comunità internazionale ed “esiliato” a Tobruk, dall’altro il governo ombra di Tripoli, guidato da Omar al Hassi, connesso con variegate forze islamiste tra le quali ha una forte preponderanza il partito legato alla Fratellanza musulmana libica.
Le rivalità tra i due governi, che hanno spaccato in due la Libia con violenti scontri in varie zone nevralgiche del paese, non hanno fatto altro che spianare la strada all’ascesa dei gruppi jihadisti, abili, si sa, nello sfruttare il vuoto di potere che permette loro maggiore libertà di movimento. Così, ampie zone dell’ex Jamahiriya, soprattutto nell’est e nel sud, sono finite sotto il controllo di forze dichiaratamente jihadiste come Ansar al-Sharia o altri gruppi radicali che dichiarano la propria appartenenza all’Isis. E’ il caso di Derna, città costiera di circa 100mila abitanti, dallo scorso ottobre roccaforte libica dello Stato islamico; ora, stessa sorte potrebbe essere quella di Sirte e di altre città del paese.
A conti fatti, dunque, sembra che “lo scenario del terrore” si stia allargando anche alla Libia. Le ramificate milizie dell’Isis hanno così reso più complesso il già intricato risiko geostrategico della guerra, non più circoscritta all’area iracheno-siriana ma, ora, anche alla Libia. Inutile negarlo, lo scenario libico ha una valenza decisamente diversa per l’Italia, sia perché pensare allo stato islamico a 200 miglia marine dalle nostre coste è un’ipotesi capace di far scorrere almeno un brivido lungo la schiena anche al più distratto degli osservatori, sia perché proprio le coste libiche sono il principale luogo di partenza delle migliaia di disperati che tentano di raggiungere l’Italia e tra questi potrebbe nascondersi, senza troppe difficoltà, anche qualche boia del califfato.
La situazione, dunque, è quanto mai delicata e di non facile soluzione e, questa volta, tocca all’Italia smuovere le cancellerie europee, forse fin qui un po’ distratte o impegnate su altri fronti, come quello ucraino. Ma in Libia, come negli altri territori in mano alle milizie dello stato islamico, l’emergenza deve essere risolta obbligando, nel minor tempo possibile, tutte le rappresentanze a sedersi a un tavolo allargato, senza dimenticare che esiste una coalizione anti-Isis voluta e guidata dagli Stati Uniti di Obama che, seppure tra alterni successi, continua ad operare in territorio siro-iracheno. Forse, e paradossalmente, il califfato islamico, costruendo un puzzle di nemici sempre più ampio, potrebbero riuscire in ciò in cui il presidente Obama ha fin qui parzialmente fallito: creare una coalizione unitaria e pronta a scendere in campo per combattere il nemico, ora come non mai “alla porta di casa”.