La prevista discussione del Parlamento italiano sul riconoscimento dello Stato palestinese, poi rinviata, ha riproposto il problema del mai sopito conflitto israelo-palestiense e delle evidenti difficoltà per la costruzione di un processo di pace in un territorio martoriato da anni di conflitti.

Uno dei temi maggiormente spinosi dell’intricata questione e che, pur essendo da sempre sul tavolo delle trattative, non ha mai raggiunto un reale accordo è quello del ritiro israeliano dai territori occupati; e la recente diffusione della notizia della costruzione di circa 430 nuove unità abitative in Cisgiordania da parte del governo di Israele, riporta di nuovo alla luce uno dei problemi che, oramai da quasi 50 anni, rappresenta la spina nel fianco del processo di pace in Medio Oriente.



Al di là delle condanne giunte da più parti, che presumibilmente potrebbero isolare ulteriormente Israele a livello internazionale, la mossa di Netanyahu infiammerà ancor di più le drammatiche tensioni già presenti sul territorio.

La politica degli insediamenti israeliani non è storia recente e costituisce uno dei punti più spinosi dei vari tentativi di accordi di pace tra arabi e israeliani che — tra fallimenti più o meno evidenti e limitatissimi successi — si sono susseguiti dalla fine degli anni settanta, dopo una serie di guerre che hanno dilaniato i rapporti tra la popolazione araba e lo Stato di Israele fin dalla sua costituzione nel 1948.



Per comprendere l’entità del problema e dunque le difficoltà di una sua definitiva risoluzione, giova fare un passo indietro nella storia fino al 1967 quando il governo israeliano diede il via alla creazione dei cosiddetti insediamenti, comunità abitate da civili israeliani e costruite nei territori conquistati da Israele durante la guerra dei sei giorni in Cisgiordania, a Gerusalemme Est, nelle Alture del Golan e nella Striscia di Gaza. Nel 1979 Israele si ritirò dagli insediamenti nel Sinai dopo aver firmato l’accordo di pace con l’Egitto e nel 2005 l’allora primo ministro israeliano Ariel Sharon ordinò di smantellare le 17 colonie israeliane nella Striscia di Gaza, allontanando circa 10mila persone dalle loro case. Una mossa che causò non pochi malumori tra i coloni ma  anche all’interno della stessa compagine di governo.



Lungi però dal rappresentare il primo concreto passo israeliano verso l’applicazione della road map del 2003, concordata dall’amministrazione statunitense dell’allora presidente George W. Bush con Russia, Nazioni Unite e Unione Europea, il disimpegno israeliano da Gaza si accompagna, invece, all’ampliamento delle colonie in Cisgiordania — oggi circa 130 con più di 350mila abitanti — e ad una ulteriore serie di restrizioni. Un muro — barriera antiterroristica secondo alcuni o muro dell’annessione per altri — che dovrebbe superare i 700 km è stato eretto lungo i confini della Cisgiordania, inglobando, però, anche porzioni dei territori occupati e non seguendo, dunque, la cosiddetta “linea verde” — la linea armistiziale del 1949 e confine “ufficioso” di Israele per oltre mezzo secolo. 

Questa “linea Maginot”, fatta di trincee, barriere elettroniche, filo spinato e check point, non solo ha ridisegnato i confini dello Stato di Israele allargandolo, di fatto, anche a porzioni dei territori occupati, ma la sua costruzione ha comportato anche l’espropriazione di terre ai palestinesi, isolando alcuni villaggi e rendendo la vita quotidiana degli abitanti molto più difficoltosa. 

A Gaza, invece, anche dopo lo smantellamento delle colonie, Israele continua a controllare il confine della Striscia, lo spazio aereo, il commercio e le forniture elettriche. Al suo interno, invece, la zona è sotto il controllo di Hamas che, scalzando l’ala più moderata di Fatah, ha vinto le elezioni politiche del 2006. Dalla Striscia, in conseguenza dello stretto embargo posto da Israele, Hamas e altre organizzazioni hanno costruito tunnel sotterranei che da Gaza, varcando il confine con l’Egitto, arrivano in territorio israeliano e che sono utilizzati sia dai gruppi terroristici per il passaggio di armi, eludendo i controlli israeliani, ma anche dai civili poiché consentono il rifornimento di beni di consumo all’interno del territorio. Si tratta, è evidente, di una polveriera a rischio e i fatti più o meno recenti sono una triste ma inevitabile conferma di un copione oramai noto e che spesso recita laconicamente: “lancio di razzi di Hamas in territorio israeliano” e da qui “Pioggia d’estate, Piombo fuso, Margine protettivo” e così via.

Davanti a uno scenario così complesso, di cui qui si accenna solo brevemente, le speranze di un processo di pace legato all’obiettivo di due entità statuali autonome, Israele e Stato palestinese, che vivano una accanto all’altra in pace e sicurezza, sembra una chimera, evocata ormai più come un esercizio retorico di stile, di grande impatto, che come un’ ipotesi realizzabile, data la realtà dei fatti. E sembrano ancora più lontani i tempi di Oslo quando “due uomini”, seppure un po’ titubanti, si diedero la mano sul prato della Casa bianca dichiarando al mondo, che li ascoltava col fiato sospeso, che era giunta “l’era della pace”. 

Ma forse proprio ora che le immagini di Yitzhak Rabin e Yasser Arafat che stringono tra le mani il premio Nobel per la pace sembrano solo delle foto sbiadite da consegnare alla storia,  acquistano ancor più valore le parole pronunciate dal papa durante la recente visita in terra santa: “È giunto il momento per tutti di avere il coraggio della generosità e della creatività al servizio del bene, il coraggio della pace…”. Forse partendo da qui si  potrà pensare di ricostruire quel tortuoso ma necessario cammino intrapreso tanti anni fa ad Oslo e che, non a caso, fu chiamato dallo stesso Rabin “la pace dei coraggiosi”.