È veramente strana la guerra che si sta combattendo al confine tra Russia e Ucraina, così strana che tanto più ci illudiamo di aver imboccato la via di uscita dalla crisi e tanto più cresce la gravità del conflitto in corso; ogni tregua, ogni conferma degli accordi di tregua precedentemente sottoscritti viene immancabilmente seguita dalla sua violazione, con un costo in vite umane ogni giorno crescente.



Se ci si ferma alle grandi strategie internazionali c’è da restare interdetti: mentre la cancelliera Merkel insiste nel ricordare che «non esiste soluzione militare del conflitto», il presidente Obama prende in considerazione la possibilità di fornire all’Ucraina «armi difensive»; mentre il presidente Putin invita alla cessazione degli scontri, Aleksandr Zacharcenko, leader dell’autoproclamata repubblica di Doneck, annuncia la mobilitazione generale.



L’impressione netta è che si viva in un mondo orwelliano dominato dai principi della neolingua, così che «La guerra è pace! La libertà è schiavitù! L’ignoranza è forza». La menzogna si è così ampliata e stabilizzata che sembra difficile anche solo immaginare cosa stia succedendo veramente.

In realtà però questa è solo un’impressione, almeno parzialmente falsa. Molte cose, in effetti, ci sfuggono, ma non tutto è così difficile da capire. Qualche giorno fa Boris Višnevskij, un deputato di Pietroburgo, si poneva una serie di domande, tutte chiaramente retoriche, che a ben vedere potrebbe porsi chiunque, dalla Russia a qualsiasi paese occidentale: davvero c’è ancora qualcuno che crede che dei sistemi lanciarazzi come il Grad o l’Uragan si possano trovare sul mercato libero, o possano spuntare magicamente dalle miniere del Donbass? E davvero c’è ancora qualcuno che crede che uno di questi sistemi d’arma possa essere tranquillamente maneggiato da uno qualsiasi dei cosiddetti «volontari separatisti», che magari sino all’altro ieri aveva fatto, se non proprio il minatore o l’avvocato, almeno l’ingegnere?



Ponendoci queste domande non risolveremo certo il problema del rispetto degli accordi di cessate il fuoco e non arriveremo certo a suggerire vie di uscita da questa crisi, ma almeno faremo rinascere l’idea che una coscienza critica è possibile e non richiede chissà quali informazioni speciali, ma ha bisogno solo di un rinato senso di responsabilità di fronte al reale.

A proposito di informazioni speciali e di senso di responsabilità, c’è una strana storia che sta accadendo in questi giorni in Russia e che ci può permettere di fare un ulteriore passo in avanti rispetto a questo senso di impotenza che spesso ci taglia le gambe.

A Vjaz’ma, un’antica cittadina della Russia occidentale con poco più di 50mila abitanti, sulla base dell’articolo 275 del Codice Penale della Federazione Russa è stata arrestata una casalinga (madre di sette figli, il più piccolo, una bambina, di pochi mesi), con l’accusa di tradimento della patria attraverso la divulgazione di segreti di Stato. 

A Svetlana Davydova, questo è il nome della donna arrestata, viene contestato di aver telefonato la primavera scorsa all’ambasciata ucraina di Mosca per comunicare a qualche suo rappresentante che la caserma che stava davanti a casa sua si era improvvisamente svuotata e, probabilmente, i militari che la occupavano erano stati inviati nella zona del conflitto russo-ucraino.

Il caso ha ovviamente fatto un certo scalpore, anche per alcuni particolari non secondari: si tratta pur sempre di una madre di sette figli, ed è stata arrestata in base ad un articolo che non era mai stato applicato in circostanze anche solo lontanamente simili, un articolo, oltre tutto, la cui formulazione ampia era stata criticata dallo stesso Putin; e si potrebbe continuare ancora a lungo (così a lungo che certo anche in seguito alle numerose proteste, martedì 3 febbraio l’arresto della signora Davydova è stato tramutato nel soggiorno obbligato). Ma al di là di tradimenti e di formulazioni giuridiche più o meno ampie, c’è qualcosa di più interessante che è stato messo in luce da Nikolaj Epple, un giovane filologo, studioso e traduttore di alcuni dei principali saggi di Clive Staples Lewis.

Epple ha ricordato in particolare che è molto strano parlare di tradimento della patria o di danni arrecati allo Stato russo se, davvero, come sostiene il suo governo, la Russia non è parte in causa nel conflitto che tormenta l’Ucraina. Se poi è vero, come pare abbia sostenuto qualcuno nelle alte sfere dell’esercito, che le informazioni divulgate dalla signora Davydova «sono attendibili» e possono costituire «una minaccia alla efficace realizzazione di tutta una serie di misure tese a rafforzare il confine ucraino», la vicenda assume dei contorni ancora più inquietanti: la signora Davydova non è stata arrestata perché avrebbe tradito la patria, ma perché ha tradito il discorso propagandistico secondo cui l’Ucraina è un nemico. «Una guerra ibrida – ha concluso le sue riflessioni Epple – richiede una giustizia ibrida».

La legge farà ovviamente il suo corso e non saremo certo noi e neppure Epple a pronunciare il giudizio definitivo, vale solo la pena di ricordare ancora che il marito della signora Davydova, quando gli hanno chiesto perché, secondo lui, la moglie aveva fatto quella telefonata, ha risposto con un disarmante: «è contro la guerra! E non solo in Ucraina, è semplicemente contro la guerra in generale e contro il fatto che muoia gente pacifica e che il popolo russo sia coinvolto in questi intrighi. È contro tutto questo e non ha taciuto».

La signora Davydova e suo marito, questi sconosciuti abitanti di una sperduta cittadina della provincia russa, non metteranno certo fine alla guerra, il loro senso civico non impedirà probabilmente che altri soldati russi (e ucraini!) vengano mandati sul teatro delle operazioni, ma se è vero che una parola di verità può essere ascoltata innanzitutto quando si fa strada nel cuore di ogni singola persona e se è vero che il mondo diventa migliore quando le persone si sentono responsabili innanzitutto del proprio miglioramento, forse quella telefonata, con il suo impressionante senso di responsabilità, ha mosso ben più che i soldati di una caserma.