Anche il mondo arabo-musulmano è stato colpito al cuore. L’esecuzione del pilota giordano Muath al-Kasaesbeh da parte di Isis, chiuso in una gabbia e arso vivo, ha suscitato orrore e una reazione feroce da parte della Giordania, che ha deciso di giustiziare la kamikaze irachena Sajida al-Rishawi, chiesta come contropartita dagli jihadisti per la liberazione del pilota, e Ziad al-Karbouli, combattente qaedista che pianificava attacchi terroristici contro cittadini giordani in Iraq, entrambi detenuti ad Amman. 



In molti sui media, soprattutto in Occidente, hanno salutato con una malcelata soddisfazione questa scelta del governo giordano, motivandola con la necessità di una reazione commisurata all’offesa arrecata; ma occorre fare un passo in avanti e chiedersi, nonostante sia difficile criticare la durezza di Amman dopo la morte macabra del suo pilota, quali siano gli aspetti che vengono assieme alla scelta di giustiziare i due prigionieri. 



Vederla solo come una mera ritorsione sarebbe fuorviante oltre che incompleto dal punto di vista storico e politico. In primis perché la Giordania, contestualmente all’esecuzione, ha dato il via a raid aerei su Mosul, che hanno già causato la morte di jihadisti di Isis; questo, come evidente, segnala la volontà del governo di mettere in campo una strategia ben precisa, atta a rispondere ad ampio raggio all’attività del califfato. Re Abdallah sa bene di essere una pedina decisiva nel quadrante, vista la sua posizione strategica, e dunque agisce di conseguenza, comprendendo che il suo è uno dei territori decisivi al fine di bloccare l’avanzata jihadista e la sua posizione politica potrebbe, in un certo senso, anche divenire primaria nella zona qualora la guerra contro Isis dovesse essere vinta. 



In secondo luogo, poi, il video del pilota bruciato vivo, spiegano da Amman, è vecchio di oltre un mese rispetto alla sua pubblicazione e dunque diventa ben comprensibile che lo scambio di prigionieri è stata solo una mossa per prendere tempo e preparare al meglio lo spettacolo. Perché, pur macabro e raccapricciante, di uno spettacolo si parla. Il cui scopo primario è dire al mondo arabo che nessuno è immune e che l’Occidente è solo una parte del progetto di morte di Isis. E che soprattutto la guerra inter-islamica è pienamente in corso, nonostante in pochi ancora se ne siano voluti accorgere. 

E dunque a questo, secondo la Giordania e grossa parte del mondo arabo, occorreva dare una risposta chiara e dura, lasciando intendere che gli arabi non si lasceranno schiacciare dalla volontà di potenza di Al Baghdadi o di chi ne muove le fila, visto che di lui non si ha traccia visiva da mesi ormai; la guerra è asimmetrica, occidentali contro occidentali, arabi contro arabi, musulmani contro musulmani ma non per questo meno visibile e feroce nelle sue manifestazioni, mentre al di qua dei Dardanelli ancora ci si trastulla nel vedere le immagini e nel non pensare.

Mi limito ancora una volta a far notare come la pochezza culturale dell’Occidente abbia partorito la solita morbosità nel voler vedere le immagini del pilota giordano arso vivo e così facendo aumentare la cassa di risonanza delle azioni jihadiste, che sfociano ormai nella piena e totale autocelebrazione di una potenza che non avanza più nemmeno di un metro, anzi ne perde uno al giorno. Loro inviano messaggi di morte, ci propinano scene che farebbero dare di stomaco anche un sasso e noi ne facciamo un qualcosa di irresistibile, di virale sulla rete, quasi come fosse il selfie di un personaggio famoso da commentare.

Non amo la cultura della vendetta e della morte, quand’anche essa si prefiguri in risposta ad un crimine orrendo come un uomo bruciato vivo in una gabbia, ma non posso, oggi, non registrare come il mondo arabo vero abbia formalmente dichiarato guerra non tanto ad Isis bensì anche e soprattutto alla deformazione del proprio credo, cancro storico e culturale che mette a rischio la sua stessa sopravvivenza.