L’altro ieri sera, nel pieno centro di Mosca, letteralmente a un centinaio di metri dalle porte del Cremlino, con quattro colpi di pistola è stato ucciso Boris Nemcov, uno dei non molti uomini dell’opposizione a Putin che potevano vantare un’esperienza politica (era stato vicepremier della Federazione Russa ai tempi di El’cin) e che ancora non erano stati fatti uscire di scena.
Boris Nemcov è stato ucciso e non si può dire che non ci si poteva attendere qualcosa di simile: dovevamo aspettarcelo. Poco più di due settimane fa, il 10 febbraio, in un’intervista a un giornale on-line, il Sobesednik, Nemcov aveva chiaramente detto di temere per la propria vita e aveva esplicitamente fatto il nome di chi lo minacciava: il presidente Putin.
Colpo da lotta politica, dirà qualcuno: indubbiamente; magari un po’ sopra le righe, aggiungerà qualcun altro: due settimane fa, forse poteva sembrare così, adesso non lo è più. E allora vale la pena di fare una prima osservazione, non per la Russia (dove quello che sto per dire si è capito da un pezzo), ma per l’Occidente, per i suoi politici, per i suoi giornalisti e per la sua opinione pubblica: forse sarà il caso una volta per tutte di smettere di utilizzare l’immagine del gioco quando si parla della politica russa, sia che si parli della politica interna sia che si parli di quanto sta avvenendo al confine ucraino. In Russia non si sta giocando, non si sta giocando né un complesso gioco geopolitico, né a poker, né a scacchi: c’è gente che muore ammazzata, e muore non perché giocando a guardie e ladri qualcuno ha sostituito le pistole giocattolo con quelle vere, ma perché sta avvenendo qualcosa di tragicamente vero, di tragicamente e spietatamente violento. Così che se anche non ci fosse stato questo omicidio potevamo comunque aspettarci qualcosa di simile.
Da mesi, da più di un anno ormai, il paese viene nutrito, gonfiato fino a scoppiare, con una propaganda violenta, fatta di sospetto, inimicizia e odio: chi non la pensa come il governo è un rappresentante della «quinta colonna» e viene liquidato come «nazional-traditore». La lingua russa è diventata la lingua dell’insulto e dell’offesa, tanto meglio se formulata in termini guerreschi: l’odio si respira più dell’aria. Alimentati da questi slogan, i sostenitori di questa politica, che in occidente viene ancora scambiata come un estremo tentativo di difendere i valori cristiani, domenica scorsa sono usciti in piazza, per una manifestazione contro il Maidan, una sfilata di diverse migliaia di persone che inalberava tra gli altri un enorme striscione con la scritta «NOI NON SIAMO MaiDOWN». Cosa ci si può aspettare da gente simile?
Qualche giorno prima, dopo la firma dell’ennesimo accordo di cessate il fuoco, i «volontari» russi che combattono in Ucraina avevano esplicitamente detto che per loro era una questione di onore non rispettare quegli accordi e poche ore dopo il presidente Putin, commentando la ritirata dell’esercito ucraino da Debal’cevo con una dichiarazione del tutto priva di senso della dignità e dell’onore, aveva detto di capire quanto potesse essere doloroso per l’esercito ucraino vedersi sconfitto da «trattoristi e minatori». Davvero per certa gente l’onore è un peso superfluo.
E se questa è l’atmosfera degli ultimi mesi non possiamo dimenticare che da anni ormai il paese viene soffocato tra un senso dell’orgoglio nazionale ridotto alla sola ricerca del nemico e l’invenzione di una grandezza puramente militare che è ormai arrivata a chiedere pubblicamente la riabilitazione di Stalin; qualche settimana fa uno degli uomini politici più in vista del paese è arrivato a chiedere alla Duma che l’antisovietismo fosse considerato un reato al pari della russofobia.
Il totalitarismo di un tempo non c’è più, ma è tornato il suo cuore. Non è un caso che già ieri sera, subito dopo l’omicidio, il commento che più frequentemente correva tra gli amici russi era: sta ricominciando il grande terrore; e questa mattina qualche sito rimandava alla biografia di Sergej Kirov, l’esponente del partito comunista di Leningrado il cui omicidio nel 1934 era stato appunto il primo passo verso lo scatenamento della mattanza staliniana della seconda metà degli anni Trenta. Non si sa ancora chi veramente sia stato il mandante di quell’omicidio, e forse non fu affatto Stalin; allo stesso modo si deve ancora appurare chi sia stato il mandante dell’omicidio di ieri, ma è certo che, come allora, siamo a una svolta forse decisiva.
In cosa sperare di fronte a tanta disperata manifestazione di nichilismo? Cosa possiamo aspettarci da una situazione che ha perso ogni traccia di umanità, di onore, di senso della realtà, di amore per la libertà? Come vincere questo male?
Mentre mi facevo questa domanda, come molti in Russia si stanno facendo — e molti sono tentati di non capire più il senso e il valore della pace — improvvisamente mi sono ricordato di una cosa che in questi giorni, prima dell’omicidio, tornava frequentemente in conversazioni, discussioni con amici, commenti sulla guerra in Ucraina; era un vecchio intervento di padre Georgij Cistjakov (uno dei grandi testimoni della fede morto prematuramente di cancro qualche anno fa) che, per qualche strano disegno della Provvidenza, aveva preso a girare in rete e aveva suscitato appunto numerose riflessioni, quasi a prepararci a quanto stava avvenendo.
Proprio non capivo perché fosse stata rispolverata una cosa tanto vecchia; adesso capisco: quell’intervento è la risposta alla nostra domanda. Per quanto sia importante combattere il male, diceva padre Georgij, il cristianesimo non vive di questa lotta, il posto centrale nell’esperienza cristiana non è occupato da Satana, ma da Dio, il cristianesimo è «definito dal cristocentrismo e non dall’inimicocentrismo», «non è una continua contrapposizione al diavolo, ma l’incontro con Dio».
Questa è la risposta alla nostra mancanza di speranza e nello stesso tempo anche la risposta a chi ha creato quest’atmosfera di odio e a chi l’ha trasformata in violenza pura. La lotta contro il male e il nemico, continuava padre Georgij, toglie forza al nostro cammino verso il bene, persino i sacramenti diventano un’azione magica chiamata a difenderci automaticamente dall’influenza di forze impure e cessano di essere l’iniziativa gratuita dello Spirito alla quale possiamo rispondere con il nostro movimento verso Dio. Se ci lasciamo prendere da questo movimento, il problema non è più una lotta disperata e violenta contro un nemico più forte di noi, ma la manifestazione di una libertà e di una verità che, in quanto figli di Dio, ci sono già date e vanno, ovviamente, testimoniate, nella pace.
Forse anche questo non sarà un caso: per domenica 1° marzo — prima di questo omicidio — l’opinione pubblica della Russia libera si era data appuntamento a Mosca per una marcia della pace; adesso è diventata la marcia della memoria. È anche la marcia di chi sta in Occidente.