La votazione dello scorso venerdì alla Camera dei deputati sul riconoscimento dello Stato palestinese ha destato non poche polemiche a causa dell’approvazione di due diverse mozioni: quella del gruppo guidato dal Pd e quella dei centristi. L’ambiguità è evidente. Da un lato la proposta di Area popolare e Scelta Civica ha subordinato il riconoscimento alla promozione del “raggiungimento di un’intesa politica tra il gruppo islamico Hamas e il suo antagonista Al-Fatah che, attraverso il riconoscimento dello stato d’Israele e l’abbandono della violenza, determini le condizioni per il riconoscimento di uno Stato palestinese”; mentre quella del Pd ha un tono ben diverso poiché impegna “a continuare a sostenere in ogni sede l’obiettivo della Costituzione di uno Stato palestinese che conviva in pace, sicurezza e prosperità accanto allo stato d’Israele, sulla base del reciproco riconoscimento”. In altre parole se quest’ultima mozione, approvata con 300 voti favorevoli e 45 contrari, prevede il riconoscimento tout court dello Stato palestinese, l’altra, anch’essa approvata seppure con numeri leggermente diversi (237 si e 84 no), lo pospone ad alcune condizioni tra cui un accordo tra le diverse fazioni interne all’ala palestinese. Si tratta, è evidente, di una differenza di non poco conto.



Anche se a livello teorico questa spaccatura nel Parlamento non vincola l’esecutivo, è evidente che quest’ultimo non ne riceve un orientamento chiaro e dunque, al momento, la posizione italiana non si può definire del tutto trasparente. Certo è, d’altra parte, che l’ambiguità italiana si colloca in un contesto internazionale che ha fatto della vaghezza o, per dirla in altri termini “dell’ambiguità costruttiva”, un mantra che dai tempi di Oslo regola le politiche delle principali cancellerie occidentali sulla questione israelo-palestinese e che ha trovato la sua ragion d’essere anche nelle molteplici e crescenti incomprensioni dei due attori protagonisti che, di fatto, hanno reso fallimentare qualunque tentativo di mediazione.



Le difficoltà insite nel riconoscimento dello Stato palestinese, e più in generale nel tentativo di dare vita a due entità statuali autonome, vanno dunque ricercate da un lato nella nebulosità delle diplomazie internazionali, che nel corso degli anni hanno tentato di dirimere l’intricata questione, e dall’altro nelle oggettive difficoltà di tradurre nei territori qualunque decisione presa “sulla carta”

Da un punto di vista internazionale va ricordato che il tema del riconoscimento dello Stato palestinese ha subito un’accelerazione il 29 novembre del 2012, quando 193 membri dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite hanno conferito alla Palestina lo status di Paese osservatore non membro. Una maggioranza di oltre due terzi dei Paesi membri della Nazioni Unite, dunque, ha riconosciuto l’esistenza dello Stato palestinese. Si tratta di una decisione di portata storica che, però, non ha ancora sanato i dubbi dei principali attori del sistema internazionale, Stati Uniti e Unione Europea in primis.



Se i parlamenti di molti Paesi europei, tra cui Francia, Gran Bretagna, Irlanda, Spagna, e ora seppure con qualche evidente defaillance l’Italia,  hanno sollecitato i loro esecutivi a riconoscere lo Stato palestinese (mentre la Svezia, è unico membro dell’Unione Europea ad averlo riconosciuto anche a livello di governo), gli Stati Uniti per ora non si sono esposti, mantenendo un difficile equilibrio tra la necessità di non creare ulteriori tensioni con il primo ministro israeliano, anche in vista delle prossime elezioni del 17 marzo, e l’insofferenza dell’amministrazione americana sulla politica di insediamenti portata avanti da Israele. Tema ancora più caldo anche in previsione del discorso che Benjamin Netanyahu terrà domani al Congresso americano a Washington, e che non vedrà tra gli “spettatori” il presidente americano. 

Insomma, se da un lato gli Stati Uniti di Obama sembrano discostarsi sempre di più dalla linea di Israele, dall’altra in questo momento un chiaro riconoscimento dello Stato palestinese forse potrebbe essere una ciliegina sulla torta troppo indigesta.

Il secondo punto parte proprio da qui e riguarda l’attuabilità del riconoscimento stesso che può essere realizzato de facto solo nel momento in cui lo Stato palestinese avrà un territorio ben definito su cui esercitare la propria autorità. Ora, se i confini dello Stato di Palestina, come per altro sostenuto anche dallo stesso Parlamento europeo nello scorso dicembre e come ribadito anche dal progetto di risoluzione presentato in sede Onu dalla Giordania, dovessero ricalcare quelli del 1967 (precedenti cioè all’avanzata israeliana in Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est durante la guerra dei sei giorni), Israele dovrebbe smantellare tutte le colonie presenti nell’area; politica in netto contrasto con l’intenzione, recentemente espressa, di ampliare ulteriormente gli insediamenti in Cisgiordania. 

Non solo; al di là del riconoscimento di uno Stato palestinese, resterebbero di nuovo aperti i problemi da sempre sul tavolo delle trattative che da Oslo, passando per Taba, Camp David, Wye Plantation e così via, sono inesorabilmente rimasti irrisolti, dilaniando la convivenza tra i due popoli. La questione di Gerusalemme, la situazione dei profughi palestinesi, l’isolamento di Gaza e i problemi legati al terrorismo di matrice fondamentalista, sono solo alcuni dei temi che devono essere affrontati per cercare di porre un freno alla crisi nei territori; siano essi subordinati, come vorrebbe una delle mozioni presentate in Parlamento, al riconoscimento dello Stato palestinese o ne  prescindano, come vorrebbe l’altra. Ma andrebbero affrontati al di là di ogni pronunciamento sul riconoscimento, perché è solo dalla loro risoluzione che potrebbe giungere un barlume di speranza per la costruzione di una pace quanto più duratura possibile.