“Se non riusciamo a fermare l’avanzata dello Stato Islamico in Libia dobbiamo temere un 11 settembre, non a New York o a Washington, ma nel cuore delle nostre città italiane”. E’ l’analisi di Gian Micalessin, inviato di guerra de Il Giornale contattato mentre si trova nella città di Misurata. Secondo il giornalista i legami tra gli attacchi a Tunisi e le basi dell’Isis in Libia sono evidenti e documentati, e occorre quindi affrontare il problema alla radice prima che sia troppo tardi. Ieri il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, ha rilevato che “negli ultimi mesi sono stati colpiti Parigi, Copenhagen, Bruxelles stessa. Siamo di fronte a una minaccia globale e abbiamo bisogno di concentrare l’attenzione ancor di più sul Mediterraneo”.
Quali saranno le conseguenze degli attentati sulla Primavera araba in Tunisia?
La Primavera araba non esiste più, anzi non è mai esistita, e gli attentati in Tunisia ne sono la documentazione. Le rivoluzioni sono servite soltanto a rafforzare i movimenti islamisti. Ricordiamoci che la prima conseguenza della Primavera araba in Tunisia è stata la liberazione di oltre mille jihadisti che erano detenuti nelle carceri di Ben Alì. E’ ciò che sta all’origine dell’effervescenza jihadista che si registra in Tunisia e che ha portato agli attentati nella capitale. Del resto gli attentatori di Tunisi non avrebbero potuto colpire se non avessero avuto alle spalle i santuari che si trovano nella vicina Libia, che ormai è parte integrante di quel Califfato che ci minaccia.
Secondo lei quali sono i punti oscuri di questa vicenda?
Non ci sono molti punti oscuri. Ciò che è in atto è l’allargarsi delle capacità operative del Califfato, e soprattutto la congiunzione tra l’Isis e le forze di Ansar Al Sharia, che erano già attive nel 2011. Nel dicembre di quell’anno intervistai il capo di Ansar al Sharia, l’emiro Abu Yiad, nella città che è stata la culla della rivoluzione tunisina. Oggi Ansar al Sharia in Libia è strettamente legata allo Stato Islamico, cui fornisce uomini e strutture. Ciò ha consentito all’Isis di allargarsi in Libia, prima a Derna, poi a Sirte e a Sabrata proprio di fronte alla piattaforma Eni. Non più di una settimana fa ho fotografato di fronte all’obitorio di Misurata il corpo di un altro emiro tunisino di Ansar Al Sharia, Ahmad Mahmoud Rowisi, passato a sua volta nelle fila dell’Isis.
Che cosa ne pensa dell’operazione Mare Sicuro?
E’ un’operazione di controllo preventivo degli interessi strategici dell’Italia, perché la situazione può precipitare da un momento all’altro e quindi occorre una forza in grado di garantire la difesa del Green Stream, il gasdotto che garantisce all’Italia il 12% dei consumi nazionali di gas. Anche perché Green Stream ha richiesto all’Eni degli enormi investimenti.
In quale prospettiva si inserisce Mare Sicuro?
Mare Sicuro può costituire l’avanguardia di un futuro intervento, che però come avvenne in Afghanistan deve trovare degli alleati locali da rifornire di armi e da addestrare. Se fosse l’Italia a intervenire in Libia saremmo tacciati immediatamente di essere i nuovi colonizzatori dalla propaganda dello Stato Islamico. Ma d’altra parte se non riusciamo a fermare l’avanzata dello Stato Islamico in Libia dobbiamo temere un 11 settembre, non a New York o a Washington, ma nel cuore delle nostre città italiane.
In che modo potrebbe materializzarsi questo attacco?
Questo lo lascio alla fantasia dello Stato Islamico, che ha dimostrato di avere finora ottime capacità elaborative. Non sappiamo se e come questo rischio si manifesterà, ma è chiaro che le minacce che riceviamo sono molto esplicite e fanno pensare a una volontà di colpire. Proprio per questo oggi l’Italia deve farsi capofila di una coalizione capace di guidare non un intervento diretto, ma un’iniziativa politico militare in grado di preparare forze libiche decise a combattere lo Stato Islamico.
(Pietro Vernizzi)