NEW YORK — Si può far finta di niente, non leggere i giornali, non ascoltare le notizie, cercare di convincersi che oltre al fatto che non possiamo farci niente, neanche Isis riuscirà a farci niente. Ma l’occhio sui giornali ci casca, e l’orecchio sembra essere inspiegabilmente sempre pronto a raccogliere cattive notizie. E di cattive notizie quasi ogni giorno i media ce ne passano qualcuna, abbastanza da metterci addosso un senso di disagio e smarrimento, se non paura vera e propria.



Questo weekend sul New York Times sono stati Abdi Nur e la “Black List dei 100 militari da uccidere” a tenerci sinistramente compagnia.

Abdi Nur, cittadino americano poco più che ventenne, razza somala, se n’è volato da Minneapolis in Turchia. Destinazione finale, Siria. Domenica una sua foto occupava un terzo della front page del quotidiano newyorchese: Kalashnikov in mano, sorriso ad illuminare un bel volto incorniciato da quei quattro peli di barba che l’età gli permette, con uno sfondo di pietre e sabbia, proprio come ci immaginiamo quelle terre là. Twitter ce l’ha riportato tra noi, dopo che se ne erano perse le tracce. Scomparso improvvisamente di casa, svanito da quel mondo che sembrava custodire la sua vita quotidiana.



Due giorni prima era stato un lungo elenco di nomi ed indirizzi a portare l’angoscia quantomeno in 100 famiglie — quelle elencate da qualche istigatore di jihadisti, ed indicate come bersaglio da colpire a morte. Apparentemente si tratta di militari che hanno partecipato alla lotta contro lo stato islamico. Ci sono persino le fotografie delle cento vittime predestinate. “Ora è tutto facile, voi dovete compiere solo il passo finale, che aspettate?” Questo invito rivolto ai “fratelli residenti negli Stati Uniti”, jihadisti o aspiranti tali, è apparso sul web. Internet: butti lì una cosa ed in un attimo qualsiasi distanza è coperta, potenzialmente tutti ne sono informati. Pena del contrappasso di Internet che come quasi tutta la ricerca tecnologica di questo paese è figlia del mondo militare. Ed ora gli si ritorce contro. Comunque sia il volto radioso di Abdi Nur è lì, l’invito ad uccidere pure. Ci sarà qualcuno “out there” che lo raccoglierà? Ci sarà qualcuno che deciderà di spendere la sua vita per strappare quella altrui? Temo di sì. Perché? C’è tutto il mondo che cerca di capire le ragioni di quel che sta succedendo. Io capisco solo che chi va, chi risponde a questi appelli ha bisogno di dare un sapore alla vita. Sì, dare un sapore alla vita, anche se la bocca è impastata di sabbia del deserto ed il sapore è quello del sangue. Un bisogno, o forse anche solo un’attrazione verso qualcosa di totale, di totalizzante. Esistere, appartenere, essere protagonisti. 



Nessuno vuole morire, siamo fatti per la vita. Eppure per il sapore della vita sono pronto a morire. Un bisogno ed un’attrazione forti abbastanza da far cambiare rotta. Si chiama “conversione”. Nel bene o nel male uno cambia vita.

Quello che sta succedendo, storie come quella di Abdi Nur, la Black List di coloro che sopravvissuti ad una guerra palese devono ora guardarsi le spalle da una ben più subdola, il collasso dello Yemen con la fuga dei consiglieri americani e la perdita di una sponda d’appoggio nella (inconcludente) lotta all’Isis, il disastro della Libia non ci raccontano solo la storia della fallimentare politica internazionale dell’Amministrazione Obama. Ci raccontano che il guscio comodo della nostra tiepida vita che vorremmo tranquilla, senza infamia e senza lode, scricchiola. La conversione alla violenza del sangue può cedere solo a quella della violenza dell’amore.