Il prossimo 24 aprile ricorre il centenario del genocidio degli armeni compiuto nel 1915 dai turchi dell’Impero ottomano e che provocò, secondo le stime più diffuse, oltre un milione di morti. Lo scorso febbraio è stata però avanzata la richiesta di riconoscere come genocidio un altro e più recente massacro, questa volta compiuto dagli armeni a danno degli azeri.



Il 25 e 26 febbraio del 1992, nella cittadina di Khojali vennero massacrati 613 civili, tra cui molte donne e bambini, da truppe armene coadiuvate da soldati sovietici, almeno così affermano gli azeri che, per questo massacro, sembrano intenzionati ad adire i tribunali internazionali.

L’episodio avvenne durante la quasi dimenticata guerra tra Armenia e Azerbaigian, che ebbe luogo tra il 1992 e il 1994, anno in cui venne firmato un cessate il fuoco, per il controllo del Nagorno Karabach, in cui gli scontri erano già iniziati nel 1988. La versione armena è ovviamente diversa e accusa gli azeri di non aver permesso l’evacuazione dei civili dalla città durante l’attacco.



Il Nagorno Karabach si è costituito in repubblica indipendente, non riconosciuta da nessun altro Stato, anche se sostenuta dall’Armenia. Dopo 21 anni, malgrado i tentativi dell’Ocse attraverso il cosiddetto Gruppo di Minsk (lo stesso che si occupa della questione ucraina) e le risoluzioni dell’Onu, si è ancora lontani da una soluzione, anzi le violazioni del cessate il fuoco sono diventate dall’anno scorso più frequenti.

Questo può sembrare un conflitto periferico, ma è notevolmente pericoloso perché rappresenta un’ulteriore causa di instabilità in un’area nevralgica come il Caucaso, dove si confrontano gli interessi di diversi Paesi in una situazione ancor più complessa di quella che vede lo scontro tra Occidente e Russia in Ucraina. Anche il conflitto che contrappone armeni e azeri ha la sua origine nel dissolvimento dell’Unione Sovietica e, come nel caso della Georgia, rientra nel’ottica di ripresa di controllo della regione da parte della Russia.



La Russia sta giocando su entrambi i tavoli: da un lato, ha basi militari in Armenia e i suoi soldati danno un considerevole supporto all’esercito armeno; dall’altro, forniscono gran parte delle armi all’Azerbaigian, che ha notevolmente aumentato le spese per la difesa. Non a caso, recentemente si sono registrate dichiarazioni particolarmente bellicose da parte del governo azero verso l’Armenia, accusata di non rispettare le quattro risoluzioni dell’Onu sul Nagorno Karabach e di non volere una soluzione pacifica della vertenza.

Vi sono però altre potenze regionali interessate alla vicenda, in primis la Turchia di Erdogan, il quale ha inviato al governo di Baku un caloroso messaggio di “partecipazione fraterna” al dolore per il massacro di Khojali. Gli azeri sono una popolazione di ceppo turco e parte della strategia di Erdogan è quella di porsi come partner autorevole nei confronti degli Stati turcofoni ex Urss, come l’Azerbaigian e il Turkmenistan. 

Anche l’Iran ha ultimamente fatto passi verso l’Azerbaigian, proponendosi come mediatore per la soluzione del conflitto con l’Armenia, anche qui ricordando “legami fraterni”, questa volta rappresentati dal fatto che gli azeri, come gli iraniani, sono in grande maggioranza musulmani sciiti.

Accanto a questi intrecciati legami etnico-religiosi (anche Russia e Armenia sono per questo verso accomunate dall’essere Paesi a maggioranza cristiana), vi è un altro fattore da tener ben presente e cioè che l’Azerbaigian è produttore di gas e petrolio, cosa di particolare interesse per l’Europa e l’Italia.

Dopo la cancellazione del gasdotto South Stream, itinerario alternativo a quello ucraino per il gas russo diretto in Europa, la Ue si è concentrata sul cosiddetto Southern Gas Corridor, che dovrebbe invece portare il gas azero in Europa, passando per Georgia, Turchia, Grecia fino all’Italia. L’ultimo tratto, il TAP (Trans Adriatic Pipeline), dovrebbe correre dal confine greco-turco, passando sotto l’Adriatico, fino al terminale sulla costa pugliese, dove peraltro i lavori hanno già trovato ostacoli in vari ricorsi di enti locali e ambientalisti.

Il gasdotto in questione avrebbe una portata decisamente minore a quella prevista per il South Stream, ma il gas da Baku dovrebbe arrivare in Italia per il 2020 e per quella data è molto difficile che i russi possano aver completato la loro alternativa al South Stream, il Turkish Stream. Da notare come in tutti questi casi i gasdotti passeranno dalla Turchia, che diviene il detentore di buona parte dei rubinetti del gas di cui abbisogna l’Europa.

Risulta evidente l’importanza di trovare al più presto una soluzione concordata alla questione del Nagorno Karabach ed evitare gli effetti disastrosi che avrebbe una ripresa della guerra. Si è soliti dire che le guerre si fanno per il petrolio, ma in questa guerra ci rimetterebbero tutti, produttori e consumatori di petrolio, e la speranza è che stavolta il gas possa essere un elemento di pacificazione e non il combustibile per un’altra tragedia.