Sono molto suggestive le immagini delle strade di Tunisi colorate da migliaia di bandiere rosse e da altrettante migliaia di persone che, insieme ad alcuni dei più importanti leader mondiali, compreso il premier italiano Matteo Renzi, gridano un solo slogan, “libertà”. Una libertà urlata e pretesa, tanto nella Parigi del “dopo Hebdo” quanto a Tunisi, due città distanti per tanti versi, ma ugualmente ferite dalla stessa mano.
Ma l’emozione, la partecipazione e la condivisione, dopo quest’ennesima parata delle cancellerie internazionali, dovrebbero lasciare il posto a qualcosa che vada oltre le semplici manifestazioni di solidarietà che, seppure importanti, non sono state e non saranno certo sufficienti a fermare un nemico subdolo e feroce.
In questo contesto l’Italia, per una serie di motivazioni di ordine geopolitico e diplomatico, sembra destinata ad assurgere a connettore di possibili alleanze ed azioni atte a fronteggiare questa minaccia sempre più incombente e vicina.
Resta il fatto che, qualunque sarà il ruolo che il governo italiano sarà chiamato a ricoprire, il puzzle che si sta a mano a mano componendo nel quadrante “maghrebino allargato” diventa sempre più articolato e complesso.
L’Egitto del generale al-Sisi si ritrova al momento acombattere in Libia da solo, nonostante le reiterate richieste di supporto rivolte alle Nazioni Unite che, però, si sono limitate a lievi manifestazioni di solidarietà e a qualche parola di incoraggiamento. Se da un lato la posizione attendista dell’Onu può essere condivisibile, anche alla luce dell’oggettiva difficoltà di individuare un chiaro interlocutore nel mosaico libico, dall’altra continuare a far perno sulla necessità di elaborare una soluzione politica, o meglio diplomatica, potrebbe celare l’imbarazzante incapacità di “trovare il bandolo della matassa”.
In questa impasse diplomatica la Libia continua ad essere una polveriera a rischio, con due governi, quello di Tobruk guidato dal generale Haftar e sostenuto dal Cairo e da Mosca e quello dei Fratelli musulmani di Tripoli. Tutt’intorno una nebulosa di attori dai “confini” e dalle intenzioni poco chiare, in cui senza grosse difficoltà si fanno strada i miliziani dell’Isis.
Infine la Tunisia, la speranza democratica nel “caos post-rivoluzioni”, l’eccezione laica nel prisma comparativo, spesso piuttosto fallimentare, delle primavere arabe che, dopo la strage del Bardo — nonostante gli innegabili sforzi del governo che ha adottato la linea dura nei confronti del terrorismo — ha mostrato tutta la sua fragilità e tutte le sue difficoltà ad arginare da sola la minaccia fondamentalista. Lo stesso ministero degli Esteri tunisino ha ricordato, di recente, che sono più di 500 gli jihadisti rientrati in Tunisia negli ultimi mesi e circa 3mila quelli che combattono tra le fila di al-Baghdadi. Sono numeri che non possono non fare correre almeno un brivido sulla schiena anche al più distratto degli osservatori e la vicinanza alla Libia, con i suoi confini porosi, non potrà certo che aggravare le cose.
Lo scenario appare dunque intricato e le sorti dei principali attori a livello regionale — Egitto, Libia e Tunisia — sembrano fortemente interconnesse: il tentativo di risolvere la questione libica avrebbe dirette conseguenze anche sulla stabilità della confinante Tunisia, con l’Egitto quale fondamentale player regionale e interlocutore indispensabile per tentare di arginare il caos nell’area.
Sull’altra sponda del Mediterraneo c’è un’Italia che, suo malgrado, si trova al centro di questo complesso risiko geo-strategico, molto, troppo vicina ai teatri più a rischio e affacciata su quelle “autostrade delle morte” che solcano il Mediterraneo e che scaricano barconi di disperati sulle sue coste. Un’Italia divisa tra la necessità di allineamento con le posizioni dell’Onu e la consapevolezza delle possibili nefaste conseguenze dell’immobilismo. Un’Italia che, dopo la recente visita in Egitto del premier Renzi — che giova ricordarlo è stato l’unico leader europeo a recarsi al Forum economico di Sharm el Sheikh — si è in qualche modo “sbilanciata” con quella che è considerata l’unica alternativa possibile alle Nazioni Unite, l’asse Il Cairo-Mosca. Un’Italia che, dopo gli attentati di Tunisi che hanno ucciso quattro connazionali, è stata di nuovo chiamata in causa e che ora non può tirarsi indietro, a meno che non decida di sacrificare sull’altare del “bon ton diplomatico” la propria sicurezza ma anche e più in generale la speranza di riportare un barlume di stabilità nell’area.