Il 29 dicembre del 2001 a Buenos Aires, Maxi, figlio di Silvia, entra in un caffè del quartiere di Floresta dove viveva con altri tre amici. Assiste alle drammatiche immagini televisive della carica della cavalleria contro i manifestanti nelle tragiche giornate della crisi argentina di quell’anno, nella quale si alternarono al potere diversi presidenti. Commenta il fatto duramente nei confronti delle forze dell’ordine. Vicino a lui un ex militare in pensione estrae un’arma e uccide a sangue freddo tre dei quattro ragazzi: l’ultimo riesce miracolosamente a salvarsi fuggendo. Conosciuto come “Il massacro di Floresta”, il fatto si conclude penalmente con la condanna all’ergastolo del colpevole, successivamente commutata agli arresti domiciliari al compimento dei 70 anni dell’imputato.
Kevin, figlio di Viviam, di soli 14 anni, viene investito da un’auto mentre attraversa sulle strisce in una strada del quartiere di Vicente Lopez. È lasciato agonizzante sull’asfalto e mentre, soccorso, lotta tra la vita e la morte, il suo investitore viene catturato, ma, trattandosi di una persona appartenente a una famiglia con ampio potere nella zona, le prove vengono falsate: scompare un video dell’incidente, non viene effettuato il test per stabilire i livelli di alcool e, fatto ancor più grave, al mezzo dell’investitore vengono inferti dei colpi successivi all’incidente che alterano l’intero quadro dell’omicidio. Kevin muore e passano quasi cinque anni prima che si svolga il processo in cui il colpevole viene condannato a soli tre anni… Dopo due soli mesi, poi, l’imputato viene liberato per permettergli di proseguire gli studi che conduceva in una delle migliori università del Paese. Nonostante gli appelli il processo che si svolge nella “famigliare” corte di San Isidro, il ricco quartiere di Buenos Aires dove l’investitore risiedeva, calcola che i due mesi di prigione più i sei di “studio” sommati raggiungano la pena minima di 8 mesi prevista e quindi Eduardo Sukiassan riacquista la libertà.
Viviam e Silvia, due delle tantissime storie di dolore per la perdita dei propri cari in circostanze violente che, incrociandosi nelle manifestazioni seguite ai delitti per reclamare giustizia, hanno il coraggio di unirsi in una associazione denominata “Madri del dolore”. «La nostra associazione nasce giuridicamente nel dicembre del 2004″, spiega Silvia Irigaray, la presidente. «Siamo sette mamme che hanno deciso di unire il dolore per la perdita dei propri cari facendo nascere qualcosa di positivo, cioè rendere omaggio ai nostri figli, soprattutto pretendendo che la verità venga a galla in ogni caso, anche se la condanna alla fine può non soddisfarci. Nel nostro cammino abbiamo incontrato altre madri che, passate per esperienze uguali alla nostra, sentivano il bisogno di non ammalarsi per il dolore provato dalla perdita dei cari. Avevamo il compito, sostenuto dalla nostra voglia di lottare, di proteggere altri figli appartenenti alla società nella quale viviamo, affinché sia crimini che l’ingiustizia che abbiamo sofferto non si ripetano».
Mi pare che la certezza della pena in Argentina sia oggi una chimera…
Viviam Perrone, segretaria dell’associazione: La società di questo Paese è passata da una dittatura militare che reprimeva qualsiasi cosa a un cammino sviluppatosi durante la democrazia che oggi ci ha portato nel versante opposto, che è quello di giustificare il delitto attraverso una politica di garantismo, che alla fine non difende a nessuno perché i giudici si definiscono progressisti ma di fatto distruggono moltissime famiglie. A un certo punto mio marito mi ha suggerito di fondare un’associazione alla quale ha fornito tutta la struttura legale e disegnato il logo. In seguito è venuto a mancare proprio pochi giorni prima del verdetto, compiuto il quale ho deciso di non interessarmi più alla mia causa promettendo a me stessa di essere la voce di coloro che non vengono ascoltati, delle madri povere che non hanno mezzi per difendersi, dato che oggi esiste nell’Argentina la teoria che nessuno può venire incarcerato sia esso un delinquente, un violatore o un politico corrotto.
E com’è proseguito il vostro cammino?
Silvia Irigaray: Nel corso del tempo siamo cresciute fino ad arrivare al punto di visitare le carceri per renderci conto della vita al loro interno, parlare con i reclusi confrontandoci, cosa che facciamo con grande amore e un impegno che spesso ci lascia senza energie, ma che continuiamo a svolgere. Lo stesso facciamo con le forze di polizia, coinvolgendole nelle nostre esperienze. Non ci siamo presi impegni politici perché non militiamo con nessuno, ma quello che facciamo è un dialogo continuo con tutte le forze per cercare di migliorare la situazione per il bene di tutti.
Che risultati avete raggiunto?
Viviam: Ci siamo organizzate in settori dove operiamo secondo le possibilità e le preferenze di ognuna di noi: c’è chi si dedica all’assistenza processuale e chi all’organizzazione. Siamo arrivati, cosa mai successa in Argentina, a richiedere un processo a un giudice che nel corso della sua carriera si era “specializzato” nell’abbreviare le pene o nello scarcerare condannati che poi sistematicamente recidevano nei loro delitti causando altre vittime e solo l’intervento di un giurista affine a questo Governo garantista non l’ha escluso dalle sue funzioni. Ma crediamo che su Axel Lopez, così si chiama il giudice sottoposto a processo, sia caduta una macchia indelebile che impedirà il ripetersi di “errori”, anche perché il caso ha avuto un’eco mediatica grandissima. Inoltre, un nostro progetto per la creazione di una banca dati legata agli abusi sessuali è stato approvato e realizzato aggiungendo un mezzo di estrema importanza nella risoluzione di questi casi. Ci siamo occupati anche delle corse automobilistiche clandestine, che tante vittime hanno causato, e degli incidenti di transito in generale, chiedendo l’aumento della pena per chi fugga dal luogo dell’incidente o guidi con tassi alcolici elevati.
So che papa Francesco vi è sempre stato molto vicino…
Silvia: Pochi giorni dopo il “massacro di Floresta” Bergoglio venne a visitarci come parenti delle vittime. Cosa che si è ripetuta altre volte fino a quando un giorno mi disse “Quando si calmerà il tuo dolore farai qualcosa”. Un’affermazione che mi lasciò alquanto interdetta all’epoca perché la sofferenza era grande. Poi l’11 novembre del 2013, quando ci ricevette a Roma, al consegnarli una spilla della nostra organizzazione ci disse, portandosela al cuore “Che bel lavoro che state portando avanti”. Alcuni giorni dopo ci ha chiamati per sapere se il nostro ritorno a Buenos Aires era stato buono, ma anche per dirci che la spilla con il nostro simbolo l’aveva collocata sul suo altare personale a Santa Marta.
(Arturo Illia)