“L’Unione Europea deve prendere il problema di petto e affrontarlo alla radice. Occorre intervenire nei Paesi d’origine degli immigrati per cercare una soluzione”. Ad affermarlo è don Mussie Zerai, fondatore e presidente dell’agenzia Habeshia. Il sacerdote è nato in Eritrea, e nel 1992 è fuggito dal suo Paese arrivando fortunosamente in Italia come rifugiato politico. Una volta ordinato sacerdote si è impegnato a tempo pieno per la difesa dei diritti di immigrati e rifugiati politici, occupandosi personalmente di casi scottanti come la tratta degli schiavi nel Sinai. Grazie al suo impegno, l’Istituto di ricerca internazionale di pace di Oslo lo ha candidato al Nobel per la Pace.
Partiamo dai 900 migranti naufragati al largo della Libia. Che cosa ne pensa di questa nuova strage?
E’ l’ennesima tragedia annunciata che pesa sulla coscienza dell’Unione Europea, che pure aveva tanto criticato l’operazione italiana Mare Nostrum fino a farlo chiudere per non essere costretta a finanziarlo. Se ci fosse stato ancora Mare Nostrum questi 900 immigrati potevano essere salvati. La situazione di totale caos presente in Libia sta provocando una strage la cui responsabilità è della comunità internazionale. Quest’ultima non è riuscita a stabilizzare politicamente la Libia, ma ha intrapreso un intervento militare per poi abbandonare il Paese al suo destino.
Quali sono le cause dell’esodo biblico dei migranti?
Basta vedere che cosa sta succedendo in questo momento in Africa. In Nigeria c’è Boko Haram, il Centrafrica negli ultimi mesi è stato insanguinato dalla guerra, in Somalia è dal 1994 che è in corso la guerra civile, in Eritrea abbiamo una dittatura soffocante, in Sudan comanda Omar al-Bashir sulla cui testa pende il mandato di cattura internazionale e lo stesso Sud Sudan non ha pace. I focolai nelle zone di conflitto sono la causa di questo flusso di immigrati.
Che cosa dovrebbe fare l’Italia?
L’Italia da sola non può fare molto, è indispensabile che l’Ue faccia la sua parte. Bruxelles deve prendere il problema di petto e affrontarlo alla radice, in quanto occorre intervenire nei Paesi d’origine degli immigrati per cercare una soluzione. La stessa Unione Africana deve essere messa di fronte alle sue responsabilità: gli Stati africani devono impegnarsi per risolvere i conflitti in corso. Le dittature che sono al potere da anni devono incominciare a concedere maggiore libertà, giustizia e diritti, altrimenti l’esodo continuerà.
La Commissione Ue ha deciso di raddoppiare i mezzi e i fondi per il piano Triton. E’ la soluzione di cui c’era bisogno?
Non basta rafforzare Triton, l’Ue deve anche cambiare la natura per cui è nato. Non basta limitarsi alla sorveglianza e alla difesa dei confini, serve lo stesso mandato di Mare Nostrum che consisteva nel cercare i barconi e nel salvare vite umane. Si tratta comunque soltanto di una soluzione tampone che va bene per l’emergenza. E lo stesso vale anche per i fondi a pioggia destinati ai Paesi africani con i quali ci si illude di fermare il flusso dei migranti.
Quali sono le vere intenzioni della Commissione Ue?
Il progetto dell’Ue è fare come l’Australia, che ha acquistato degli spazi in Cambogia, Isole Salomone e Indonesia, regalando soldi a questi Paesi con l’obiettivo di trattenervi i rifugiati. Il tutto come se la vita e i diritti di queste persone non contassero nulla. Il cosiddetto “processo di Khartoum”, cioè gli accordi preliminari in corso tra Ue e Paesi del Corno d’Africa, parla proprio di riaprire i campi profughi nel Nord Africa. A ciò si aggiungeranno l’esternalizzazione dei confini e i respingimenti di massa.
Con quali conseguenze?
Una volta dentro a questi campi, i profughi dovranno aspettare indefinitamente prima di essere trasferiti in un Paese europeo. E nessuno garantirà la procedura e la sicurezza di questi campi, né tantomeno che chi vi si trova non sarà vittima della tratta di esseri umani che coinvolge già chi si trova nei campi profughi in Sudan, dove le persone sono sequestrate per essere poi vendute come schiavi.
Qual è secondo lei la soluzione?
Se vogliamo evitare di contare altri morti, ciò che occorre è un dispositivo in grado di funzionare e che vada a cercare e a salvare queste persone mentre sono in mare. Nello stesso tempo occorre lavorare per proteggere i migranti nei Paesi di transito e per cambiare la situazione nelle terre d’origine, in modo che queste persone non siano più costrette a fuggire.
L’Isis in Libia ha ucciso 29 cristiani etiopi. Quanto conta il fattore religioso per i migranti?
Il martirio così eclatante dei 29 cristiani etiopi ha destato un interesse particolare. Non è però una novità che i cristiani in Libia siano torturati e uccisi. Da dieci anni l’agenzia Habeshia riceve notizie di discriminazioni e maltrattamenti ai danni di immigrati proprio in quanto cristiani.
(Pietro Vernizzi)