Caro direttore,
la correttezza politica, che si manifesta con crescente forza come crociata irrefrenabile negli States dell’ultimo decennio, raggiunge la sua massima vittoria con l’attuale candidato presidenziale: Hillary Clinton. Le tracce di questa avanzata non si erano solo sentite negli ambienti del lavoro (in cui la pressione per rimanere dentro i confinanti confini ideologici si faceva sempre più pesante), ma anche e più egregiamente negli ambienti politici, con la vittoria di Barack Obama.
Ricordo di aver parlato con una collega nel liceo privilegiato della città più ricca degli Stati Uniti, dove si annunciava in certi momenti cruciali la chiusura di alcune arterie principali per il passaggio automobilistico di un candidato o del presidente stesso (lì passarono in quegli anni Bush e Obama) verso le strade che portavano alle ville dei potenti, in un pellegrinaggio obbligatorio. Allora le dissi, di fronte al suo ingenuo entusiasmo per la candidatura della Clinton alla presidenza, prima delle elezioni che portarono al successo Obama, che gli Stati Uniti avrebbero a quel punto preferito un uomo nero piuttosto che una donna bianca, perché il paese non era ancora pronto per una donna; ma che lo sarebbe stato dopo le prevedibili delusioni della nazione di fronte a questo giovane afroamericano che non avrebbe potuto portare avanti i suoi progetti idealistici, per quanto sinceri.
Lo consideravo eloquente e coraggioso, ma impreparato e avviato ad una specie di sacrificio pasquale. Il partito democratico ora punta tutto sulla candidatura femminile perché privo di altre armi di fronte all’ennesimo Bush, che mi fu presentato in un contesto sociale quando era governatore della Florida. Un bell’uomo, molto sicuro di sé e accattivante. Gli statunitensi amano le loro dinastie. Jeb Bush è un nemico pericoloso (“a dangerous foe“, come dicono). Si tratta, sesso a parte, dello scontro tra due durissimi personaggi.
Ma la politica della correttezza ha vinto in tutti i settori, e soprattutto in quello dell’educazione dove le cacce alle streghe (non scordiamoci Salem…) si sono susseguite senza tregua per tutti questi anni — anni in cui l’anima puritana e fondamentalista nordamericana non poteva non tornare alle sue radici di controllo sociale, con tutta la censura che essa in fondo ama, pur facendosi bandiera (ironicamente) del primo emendamento alla Costituzione: “Freedom of Speech”.
La crisi insomma c’è anche negli Stati Uniti; e qualcuno qui in Italia se lo dimentica troppo spesso, forse perché l’anima mediterranea tende a cadere in una sorta di melodramma auto-flagellante e fatalistico, che non gli permette di vedere bene al di là delle proprie frontiere. In che modo si risolverà questa crisi nella mente dei cittadini statunitensi di fronte a queste elezioni, rimane, come in tutte le elezioni, un mistero.