Papa Francesco ieri è tornato a parlare di quanti nel mondo sono “perseguitati, esiliati, uccisi, decapitati per il solo fatto di essere cristiani”, e ha auspicato che “la comunità internazionale non assista muta e inerte di fronte a tale inaccettabile crimine, che costituisce una preoccupante deriva dei diritti umani più elementari”. E ha aggiunto il Santo Padre riferendosi ai cristiani perseguitati: “Loro sono i nostri martiri di oggi e sono tanti, possiamo dire che sono più numerosi che nei primi secoli”. Ne abbiamo parlato con Vincenzo Buonomo, professore di diritto internazionale nella Pontificia Università Lateranense.



Che cosa impedisce una risposta seria da parte dell’Onu per quanto riguarda i cristiani perseguitati?

In questo caso la risposta non deve venire solo dall’Onu ma dell’intera comunità internazionale. Il discorso del Papa è stato molto chiaro, perché ha fatto riferimento al “concorso degli Stati singolarmente e delle organizzazioni internazionali”. Il Papa ha ribadito che non può esistere un “diritto all’indifferenza”, e questo può significare due cose fondamentali. In primo luogo prendere coscienza che siamo di fronte a un attacco sistematico, e non sporadico, nei confronti dei cristiani. Quando l’attacco diventa sistematico, siamo al limite di quel crimine che chiamiamo genocidio. In secondo luogo i Paesi volgono la testa dall’altra parte e non vogliono impegnarsi in alcun modo.



Che cosa non funziona nei meccanismi politici e decisionali delle Nazione Unite?

Le regole dei meccanismi decisionali del’Onu sono nati 70 anni fa e rispondono a una logica che non è più quella attuale. Mi riferisco al profilo burocratico per giungere alla convocazione di un consiglio di sicurezza, al fatto di dovere bilanciare le volontà dei diversi Stati, alla possibilità di decidere interventi concreti. Sono tutte difficoltà della struttura rispetto all’attuale realtà delle relazioni internazionali. Abbiamo una struttura che non risponde più alla logica ordinaria di questo momento storico.



Come andrebbe riformata questa struttura, per rendere l’Onu in grado di intervenire secondo modalità più adeguate?

Di fronte a situazioni come quella che ha denunciato il Papa, che mettono in pericolo la vita delle persone, le risposte ipotizzate sono state due. Negli anni 90 si è parlato di “intervento umanitario”, cioè dell’obbligo di intervenire dove ci sono situazioni che mettono in pericolo la vita di persone e di comunità. In quel contesto lo stesso Giovanni Paolo II espresse la necessità di “disarmare l’aggressore”. Alla fine degli anni 90 si parlò invece della “responsabilità di proteggere”. La comunità internazionale, intesa come Stati o istituzioni internazionali, di fronte a massacri o a eliminazioni di massa ha l’obbligo di intervenire per proteggere o garantire le persone. Questo obiettivo purtroppo è stato però tralasciato o travisato. Si è puntato su sostituzioni di governi o di poteri, ma non su interventi che potessero servire a proteggere fino in fondo la popolazione civile.

Secondo lei questa volta ci sono le condizioni per un intervento dell’Onu?

Per quanto riguarda Siria e Iraq, dall’inizio del controllo dell’Isis, c’è stato un immobilismo delle Nazioni Unite. Abbiamo assistito a una mancata volontà di intervenire, perché si pensava di mettere in discussione anche poteri o sfere d’influenza consolidate. Oggi ci si accorge che invece era forse necessario già prima bloccare il Califfato.

 

In che modo è possibile intervenire?

Come ha ricordato Papa Francesco, sarebbe importante intervenire sul traffico di armi. Nei territori in cui i cristiani sono uccisi c’è un arrivo continuo di armi e quindi da qualche parte queste armi provengono. In secondo luogo chi controlla i territori vende materie prime come il petrolio. Già bloccare questi due canali potrebbe servire a garantire una stabilità o un tentativo di stabilità.

 

(Pietro Vernizzi)