Campo profughi: così era scritto, martedì 7 aprile alle 20.00, nel titolo del Tg7, dedicato alla  tragedia in corso a Yarmouk, periferia di Damasco. L’aggettivo palestinese, forse, sarebbe stato troppo lungo. I profughi poi, si potrebbe aggiungere, sono tutti uguali. Il direttore del Tg7, Enrico Mentana, quell’aggettivo in vero lo ha poi pronunciato, ma resta la sensazione che la notizia sia stata in parte “bucata”, perché quell’aggettivo era veramente importante ed andava fatto conoscere e spiegato ai telespettatori italiani. 



Tra i quali, forse, c’è qualcuno che crede (o meglio è stato indotto a pensare) che qaedisti, terroristi islamici e palestinesi siano tutti uguali nel loro odio contro l’occidente, i cristiani, gli ebrei. D’altra parte solo pochi giorni fa, alla vigilia delle elezioni politiche in Israele, il primo ministro israeliano Netanyahu chiedeva voti e prometteva che mai uno stato palestinese sarebbe sorto, perché altrimenti i fondamentalisti islamici si sarebbero insediati alle porte di Gerusalemme.



Le cronache di questi giorni, anzi di queste ore, raccontano invece di scontri armati violentissimi, a Yarmouk, tra i miliziani palestinesi e quelli dell’Isis, fautori del cosiddetto stato islamico. I combattenti dell’Isis, oppositori del presidente siriano Bashar al Assad,  erano penetrati, all’inizio di aprile, in quello che era il più grande campo profughi palestinese in Siria con il consenso di un’altra fazione islamista, il Fronte al Nusra. Si rompeva così quel precario equilibrio sul terreno che durava da un anno, dall’aprile del 2014, quando i soldati governativi avevano finalmente riaperto gli accessi al campo, dove erano rimasti intrappolati, per mesi, 20mila profughi palestinesi senza acqua, cibo, medicine. Un anno fa le foto di gente affamata che chiedeva aiuto avevano fatto il giro del mondo ed avevano indotto il regime del presidente siriano Assad ad allentare l’assedio in cambio di una  tregua di fatto ad Yarmouk con le milizie degli oppositori, milizie formate da palestinesi e siriani. 



In quel campo profughi, come in gran parte degli stati arabi, la “primavera araba” nel marzo del 2011 è passata come un vento che ha rotto equilibri politici e sociali, e dato voce alla volontà di rovesciare antiche dittature. Per i palestinesi in Siria ha voluto dire, in più, fare i conti con l’antico alleato Assad: alcuni gruppi (come il Fronte per la Liberazione della Palestina) hanno scelto la neutralità e di fatto il sostegno a Bashar al Assad, altri sono confluiti con i suoi oppositori nell’Esercito libero siriano, altri infine, come i dirigenti di Hamas, hanno abbandonato Yarmouk, per decenni loro quartier generale, mentre i militanti di base si schieravano con gli oppositori del regime di Damasco.                                                                             

In queste ore, raccontano i testimoni, i palestinesi di tutte le fazioni hanno ritrovato l’unità sul terreno, combattendo strada per strada, contro i miliziani dell’Isis. L’unità è stata trovata contro chi si comporta da invasore delle proprie case, con alle spalle in più una ideologia islamica fondamentalista lontana dalla cultura laica, ma anche da quella religiosa, cristiana o islamica, dei profughi palestinesi di Yarmouk. 

Così anche i profughi palestinesi (musulmani o cristiani), stanno subendo la brutalità dei combattenti dello stato islamico. Tra i palazzi sventrati di Yarmouk sono stati ritrovati corpi di palestinesi decapitati. Migliaia di civili, in particolare vecchi donne e bambini che non sono riusciti  ad abbandonare il campo, sono tornati a vivere senza più quel minimo di cibo, portato dall’Unrwa, l’organizzazione dell’Onu per i profughi palestinesi nel mondo.

La vicenda di Yarmouk e i suoi morti potrebbero non essere vani per noi occidentali, ad una  condizione: che si abbia il coraggio di guardare dentro questa tragedia. Di superare l’indifferenza, ma anche un generico umanitarismo. L’aggettivo palestinese, in questa circostanza, è importante perché ci costringe a confrontarci con il dramma di persone reali, con una loro storia, una loro cultura, una propria aspirazione alla dignità. L’esatto opposto dei luoghi comuni, che vivono di  generiche definizioni, che rincorrono spesso la rabbia e non l’intelligenza delle persone.