L’attenzione dell’Occidente per la Cina è concentrata sulla sua economia e sui riflessi, decisamente importanti, che essa ha sull’economia mondiale. Il ruolo primario ormai assunto sotto questo profilo dal “Paese di mezzo” sembra tuttavia lasciare in secondo piano altri aspetti non meno rilevanti, come quelli attinenti a una politica estera decisamente espansionistica.
Già da anni la Cina ha esteso la propria presenza in Africa, con l’apparente disinteresse dell’Occidente, come già riportato su queste pagine diversi anni fa. Secondo un articolo dell’Economist di inizio anno, anche altri Paesi non europei stanno investendo pesantemente in Africa e in particolare l’India è molto attiva. Questa competizione è facilitata dalla crescita in molti Stati africani di una netta avversione verso certi atteggiamenti spregiudicati dei cinesi.
Proprio per evitare queste reazioni, la strategia espansionistica cinese avviene all’insegna del cosiddetto “Soft Power”, ma sembra il classico guanto di velluto che nasconde il pugno di ferro, cosa di cui paiono essersi accorti anche gli Stati Uniti, minacciati nella propria posizione di leader mondiali proprio da Pechino, anche se Obama sembra aver individuato il “cattivo” nel solo Putin.
Un forte segnale in tal senso è stato dato dal successo, almeno iniziale, della AIIB, (Asia Infrastructure Investment Bank), promossa dalla Cina e a cui hanno aderito come soci fondatori 57 Paesi (ma non ancora il Giappone), nonostante la forte opposizione americana. La Cina ha proposto l’AIIB non come concorrente, bensì come fiancheggiatore di altre simili iniziative esistenti, come ad esempio la Banca Asiatica di Sviluppo, ma gli Usa la considerano una vera e propria sfida al loro progetto di area di libero commercio tra 12 Paesi dell’area, il cosiddetto TTP.
Obama sta cercando di convincere il Congresso ad accettare una procedura di urgenza che non viene vista favorevolmente da parte di molti deputati e senatori americani, che ha costretto proprio in questi giorni Obama a forzare la mano affermando che, se il TTP non viene varato rapidamente, la Cina avrà mano libera nell’area del Pacifico e gli Usa ne rimarranno fuori.
Tornando all’Africa, le imprese cinesi che vi operano e investono non sono certamente tutte statali, ma non è difficile pensare che anche le aziende nominalmente private rispondano pienamente agli interessi del sistema-paese cinese, cioè del governo. La stessa cosa si può dire dei cinesi che risiedono per lavoro o affari in Africa, stimati in circa un milione. Queste presenze in un continente ricco ma travagliato come quello africano dovrebbero dare molto da pensare.
Particolare preoccupazione hanno suscitato voci su una possibile entrata della Cina nel porto di Walvis Bay, in Namibia, in accordo con la strategia di Pechino di investire nelle infrastrutture portuali. La particolare preoccupazione deriva dal fatto che questa volta gli accordi potrebbero interessare anche la marina militare, trasformando una tradizionale base della marina britannica in una coabitazione con i cinesi, che potrebbero così controllare le rotte atlantiche.
Il pugno di ferro si fa vedere molto più apertamente nei confronti dei Paesi vicini alla Cina, come Giappone, Filippine e Vietnam. Con il primo è in corso da lungo tempo una controversia per il possesso delle Isole Diaoyu (o Sensaku), amministrate dal Giappone ma rivendicate dalla Cina, importanti per i giacimenti di idrocarburi, per la pesca e il controllo delle rotte. Le possibilità di scontro tra le unità navali dei due Stati che pattugliano le stesse acque sono non trascurabili.
Inoltre, Pechino ha ripreso le accuse per il comportamento dell’esercito giapponese in Cina durante la seconda guerra mondiale, con la richiesta di un riconoscimento più completo dei crimini allora commessi dal Giappone, anche se l’attuale governo ha già espresso il suo “profondo rimorso” in proposito.
Simili tensioni esistono, peraltro, anche tra Giappone e Corea del Sud, sia per la questione delle donne coreane costrette a prostituirsi con i militari giapponesi durante la guerra, sia per le rivendicazioni giapponesi sul piccolo arcipelago di Dokdo (o Takeshima) controllato dai coreani.
Nel Mar Cinese Meridionale la Cina ha in corso contenziosi territoriali anche con Filippine, Malesia, Brunei e Vietnam, e ovviamente Taiwan, con rapporti molto tesi in particolare con le Filippine e il Vietnam, il cui regime comunista è stato sempre più vicino a Mosca che a Pechino.
La situazione si è recentemente aggravata con l’inizio da parte della Cina di ampie costruzioni, vere e proprie isole artificiali, sugli isolotti delle Spratly, l’arcipelago del Mar Cinese Meridionale rivendicato da altri Paesi asiatici, tra cui le Filippine. Il governo cinese le ha definite un legittimo intervento sul proprio territorio mirato a rendere più sicuro l’arcipelago, anche in favore della navigazione internazionale. Nella dichiarazione ufficiale si fa però anche riferimento alla necessità di soddisfare esigenze di difesa militare.
Accanto agli Stati interessati nella controversia, si sono fatti sentire anche gli Stati Uniti attraverso l’ammiraglio Harry Harris Junior, comandante della flotta americana nel Pacifico, che ha accusato la Cina di voler fortificare l’arcipelago con una “Grande Muraglia” di sabbia e di creare forti tensioni in tutta la regione con le sue pretese territoriali.
Anche il presidente filippino, Benigno Aquino, ha denunciato il comportamento della Cina, che “dovrebbe generare timori in tutto il resto del mondo”, tenendo conto che le costruzioni nelle Spratly sembrerebbero consentirne l’uso per aerei militari. Le Filippine si sentono particolarmente deboli di fronte al gigante cinese e, come riporta il Telegraph, le manovre congiunte di quest’anno con gli Usa prevedono la partecipazione di un numero doppio di militari. Significativo il nome dato alle esercitazioni: “Balikatan”, cioè “spalla a spalla”.
Visti i giocatori sarebbe molto rischioso ridurre la vicenda a un gioco, sia pure un war game, e sarà bene ricordare che nelle zone contese passa circa il 40% del traffico commerciale marittimo mondiale: i timori evocati dal presidente filippino sembrano quindi giustificati.