Un anno fa Papa Francesco stava per iniziare il suo viaggio, breve ma ricchissimo di incontri, nella Terra Santa. Alla fine di quel mese, la mattina del 25 maggio, domenica, il suo elicottero era atteso a Betlemme, direttamente da Amman. Dunque, in terra di Palestina senza passare prima da Israele, come non accadeva dai tempi della visita a Gerusalemme di Paolo VI del 1964. Un piccolo segnale, certo religioso ma con una valenza diplomatica. Tutti coloro che erano a Betlemme ricordano quella limpida giornata, inondata di luce e di sole. L’elicottero arrivò con qualche minuto di anticipo, vicino alla Moqata, la residenza di Abu Mazen a Betlemme. Nel saluto che Papa Francesco rivolse al presidente palestinese c’era già, a ben vedere, tutto il contenuto dell’Accordo globale raggiunto nei giorni scorsi. Rileggiamo due passaggi di quel breve, ma importante discorso del Papa.
Il primo è il più politico. “Signor Presidente, Lei è noto come uomo di pace e artefice di pace. Il recente incontro in Vaticano con Lei e la mia odierna presenza in Palestina attestano le buone relazioni esistenti tra la Santa Sede e lo Stato di Palestina, che mi auguro possano ulteriormente incrementarsi per il bene di tutti”. Papa Francesco, dunque, abbandona il termine Autorità Nazionale Palestinese, nato all’indomani degli Accordi di Oslo del 1993, tra israeliani e palestinesi. Utilizza invece il termine di Stato di Palestina, con la consapevolezza che quell’espressione, pronunciata a Betlemme, non passerà inosservata.
D’altra parte, la diplomazia vaticana aveva accolto con soddisfazione l’ingresso dello Stato di Palestina alle Nazioni Unite, nel novembre 2012, come “Osservatore permanente”. Una posizione giuridica uguale a quella della Santa Sede all’Onu.
C’è poi un altro passaggio del discorso di Papa Bergoglio che merita oggi di essere riletto. Entra nel cuore delle necessità delle comunità cristiane, anzi di ogni uomo o donna animati da un senso religioso e lo sguardo va sicuramente oltre i confini della terra palestinese. “A tale riguardo – dice il Papa ad Abu Mazen – esprimo il mio apprezzamento per l’impegno ad elaborare un Accordo tra le Parti, riguardante diversi aspetti della vita della Comunità cattolica del Paese, con speciale attenzione alla libertà religiosa. Il rispetto di questo fondamentale diritto umano è, infatti, una delle condizioni irrinunciabili della pace…”.
Se queste parole hanno di per sé un peso, certamente lo hanno avuto ancor maggiore per il luogo, Betlemme, dove sono state pronunciate. Così, anche l’annuncio dell’Accordo globale tra Santa Sede e Stato di Palestina trova il suo suggello religioso ma anche politico (nel senso alto del termine che fa riferimento alla vita di una comunità) nella canonizzazione, a Roma, domenica 17 maggio, delle prime due sante palestinesi in epoca moderna. Alla cerimonia in piazza San Pietro sarà presente anche Abu Mazen, un doveroso omaggio a due figlie della sua terra, suor Marie Alphonsine Danil Ghattas di Gerusalemme e suor Mariam Bawardy (Maria di Gesù Crocifisso) di Betlemme.
E’ inoltre il riconoscimento della piena legittimità della comunità cristiana all’interno del popolo palestinese e nella convivenza con la comunità musulmana.
Se la presenza di Abu Mazen, a San Pietro, questo innanzitutto vuole dire, c’è anche un messaggio che giunge dalla Santa Sede. La canonizzazione delle due sante palestinesi e l’Accordo globale sono il segnale di una storia cristiana in Terra Santa certo millenaria ma anche attuale, nelle attività educative e di carità, e nel rispetto ricevuto da parte delle autorità politiche. Un segnale di speranza all’interno di un Medio Oriente segnato in questi tempi anche dall’intolleranza verso i cristiani. Nel contempo, un ammonimento a tutti coloro che in Occidente non sono capaci di ricercare l’incontro e il dialogo con tutte le persone ed i politici di buona volontà.
L’Accordo tra Santa Sede e Stato di Palestina riguarda la libertà di azione della Chiesa, i luoghi di culto, i mezzi di comunicazione, le questioni fiscali ed altri aspetti ancora. Un accordo deludente lo definisce invece il portavoce del ministero degli Esteri israeliano, perché non “contribuisce a riportare i palestinesi al tavolo della trattative”. Nelle conseguenze dell’annuncio di un Accordo globale tra Santa Sede e Stato Palestinese ci sono, ovviamente, numerosi indiretti riferimenti ai governanti dello Stato di Israele. Il primo più banale, ma in realtà anch’esso importante, è un indiretto invito al Governo Netanyahu a chiudere presto e bene la più che ventennale trattativa, iniziata nel 1993, per un analogo accordo globale tra Santa Sede e Stato di Israele. Il secondo, politicamente ancor più rilevante, è un messaggio chiaro al nuovo governo Netanyahu, a considerare lo Stato di Palestina come una realtà da riconoscere, non da ignorare. Talmente ignorata che sembra scomparsa dal programma del nuovo governo che la Knesset, il Parlamento israeliano, sta discutendo.