Il recente attentato suicida in Arabia Saudita non ha avuto sui media l’attenzione che meritava. Un attacco terroristico in una moschea nel cuore del regno dei Saud, già scosso alle fondamenta dal cambio di modalità ereditaria. Peccato che la moschea in questione, dove si contano almeno una ventina di morti, sia quella sciita di Qatif dedicata all’imam Alì di Al Qadeeh, posta al centro della penisola arabica. Circostanza di non poco conto questa, visto che da mesi ormai tensioni interne ed esterne agitano la politica saudita dopo il riavvicinamento fra Iran e Stati Uniti in funzione anti Isis.
Non è peraltro la prima moschea sciita sotto attacco quest’anno: fra Pakistan, Yemen e Iraq sono centinaia i morti rimasti sul terreno dopo attentati di questo genere. Il quadrante simbolo dell’islam mondiale è in ebollizione, faglie sanguinose continuano a spaccarsi creando conflitti sempre più aspri fra strati sociali ed élite politiche contrapposte. Questa una delle numerose conseguenze della nascita di Isis, ovvero accendere la scintilla dello scontro interislamico nel mondo, dove sciiti e sunniti, certo non in conflitto da ieri ma da tempo in equilibrio, ormai vedono sempre più vicino lo scontro finale, quello che potrà risolvere una volta per tutte la diatriba scatenatasi dopo la morte del Profeta e conclusasi temporaneamente a favore dei sunniti.
Una suggestione su questa ipotesi si fa strada grazie ad uno spiffero in stile Nostradamus che corre nelle vie del mondo arabo, il quale parla di una sorta di “uomo nero”, di “falso Cristo” che arriverà dal quadrante mediorientale e decreterà la fine del mondo come noi lo conosciamo. Suggestione inquietante, se pensiamo che i sauditi hanno visto crescere esponenzialmente l’influenza iraniana e sciita in tutto il quadrante e addirittura sul proprio suolo nazionale, iniziando ad avere a che fare con numeri importanti dal punto di vista demografico e geopolitico; così si spiega, come detto più volte su questo giornale, l’aggressione unilaterale allo Yemen in cui la presa del potere da parte dei ribelli sciiti Houthi ha per lungo tempo agitato i sonni dei palazzi di Riyadh.
L’ala ultraconservatrice saudita, depositaria della tradizione wahhabita più potente e reazionaria, sta prendendo il sopravvento contro la prudenza dei Saud? Oppure si tratta davvero di terrorismo di matrice esterna identificata in Isis, come da rivendicazione del dopo-attentato? Magari, ragionando in maniera più bilanciata e analizzando a fondo l’atteggiamento saudita sull’espansione di Isis, per lungo tempo foraggiato assieme al Qatar, forse potremmo essere dinnanzi all’emersione palese di un certo doppio pensiero saudita rispetto al presunto stato islamico di al-Baghdadi: da un lato si teme l’avanzata delle milizie jihadiste fino a sfondare i confini nazionali, dall’altra si vedrebbe di buon grado una forza paramilitare nel quadrante in grado di contrastare l’influenza sciita crescente.
Siamo troppo in prossimità dei fatti per costruire ipotesi su cosa accadrà dopo questo attentato, ma appare del tutto evidente come nel regno saudita sia in corso uno smottamento tellurico di certezze stratificate da secoli, dove si pensava che mai nessuno avrebbe potuto spezzare o solo incrinare determinati patti. E determinate regole del gioco.
Quel che è certo è che un Paese, qualunque esso sia, cambia radicalmente dopo un attentato compiuto sul suo suolo nazionale. Ciò che resta da capire è se e come l’Arabia Saudita potrà cambiare e in quale direzione andrà questo eventuale cambiamento. Uno Stato colpito all’interno è come un animale ferito, ha paura e dunque potrebbe fare due cose: nascondersi oppure reagire con violenza.