Lo Stato Islamico ha rivendicato i due attentati che tra giovedì notte e venerdì mattina hanno colpito due hotel di lusso a Bagdad e una moschea sciita a Damman in Arabia Saudita. In tutto venti le persone che hanno perso la vita. A Bagdad sono stati presi di mira il Babil e il Cristal Hotel, causando 15 morti e 42 feriti. A Damman invece un’autobomba è stata fermata dalla sicurezza interna davanti a una moschea affollata per la preghiera del venerdì. Due fratelli si sono accorti che alla guida c’era un attentatore e hanno sacrificato la loro vita pur di impedire una strage ancora più grave. Ne abbiamo parlato con il generale Carlo Jean, esperto di strategia militare.



Perché l’Isis ha organizzato questi due attentati?

Lo Stato Islamico vuole dimostrare di sapere reagire al rischio di una riconquista nella regione dell’Anbar da parte dell’esercito irakeno. Dopo la presa di Ramadi e Palmira, l’Isis vuole mantenere l’immagine di un’organizzazione che continua a mietere successi. Attraverso questi attentati suicidi, difficilmente neutralizzabili, cerca di mantenere la pressione sui governi di Iraq e Arabia Saudita.



E’ solo un obiettivo d’immagine o c’è anche una strategia?

La strategia dell’Isis è sempre quella di allargare il territorio che ha a disposizione. Con gli attentati contro le moschee e gli hotel obbliga i governi di Bagdad e Riyadh a intensificare la vigilanza sui luoghi di culto e quindi ad avere a disposizione un minor numero di truppe nelle zone al confine con l’Isis.

Qual è in questo momento la priorità di Al-Baghdadi?

Al-Baghdadi ha come priorità la guerra a un nemico “vicino”, cioè agli Stati a maggioranza musulmana che non l’appoggiano, mentre per Al Qaeda la priorità era l’attacco al nemico lontano, cioè gli Stati Uniti e l’Occidente.



Perché l’Esercito irakeno è così debole?

Perché l’Iraq non è una nazione bensì un insieme di tribù in lotta tra loro. Queste ultime sono leali ai loro capi locali ma non allo Stato, e di conseguenza la gente non è disposta a morire per interessi che vede come lontani da sé.

Obama vuole veramente sconfiggere l’Isis o il caos che si è creato gli fa comodo?

La speranza di Obama è che a livello regionale si crei un equilibrio per cui a combattere siano le potenze regionali e non gli Stati Uniti. Obama è criticato un po’ da tutti, sia all’interno sia all’esterno, per la crescita dello Stato Islamico e quindi questa situazione non gli fa certo comodo.

Qual è la strategia della Casa Bianca?

E’ una strategia di minimizzazione delle perdite americane, e quindi non prevede un impegno di truppe a terra. La sconfitta dell’Isis richiederebbe che gli eserciti delle potenze mediorientali fossero molto forti, ma né Arabia Saudita né Giordania ne sono provvisti. Lo stesso Iran del resto non appoggia gli sciiti irakeni oltre un certo limite.

 

Gli attacchi alle moschee saudite si inseriscono anche nel contesto del conflitto di potere nella monarchia del Golfo?

Si tratta in primo luogo di un attacco agli sciiti che costituiscono il 15% della popolazione saudita. E’ pur vero che Riyadh vuole utilizzare l’Isis per contrastare l’Iran.Ed è ugualmente innegabile che nella famiglia reale ci sono sia delle tendenze più rigoriste, legate alla corrente wahabita, e altre più modernizzanti, impersonate dal ministro della Difesa Mohammad bin Salman al-Saud. L’Arabia Saudita del resto ha sempre avuto questi due volti.

 

Che cosa vogliono i modernizzatori all’interno del Paese?

Vogliono innanzitutto combattere la disoccupazione giovanile, che nasce dal fatto che l’estrazione e la vendita del petrolio richiedono ben poca manodopera e non bastano quindi per dare lavoro all’intera popolazione.

 

Questi attentati mirano anche a costringere l’Arabia Saudita a modificare la sua linea politica?

Il paradosso è che questi attentati legittimano una mano dura dell’Arabia Saudita contro l’Isis. Il ministro degli Interni e principe ereditario, Muhammad bin Nayef, è stato al centro di un tentativo di assassinio da parte di Al Qaeda. Non dimentichiamoci che in Arabia Saudita Isis e Al Qaeda sono viste soprattutto come due organizzazioni legate tra di loro.

 

(Pietro Vernizzi)